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FRANCOANGELI/Didattica del Progetto
INDEX
Un percorso di specializzazione
in Interaction Design Experience
a cura di
Sebastiano Bagnara e Mario Mattioda
181
Il ritorno al futuro dell’Interaction design
di Leandro Agrò
Mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer. Questa frase
l’ho detta molte volte dal 1997, anno in cui sono uscito da Domus Academy.
Eppure, negli anni, ha avuto un senso molto diverso, e io stesso ci ho creduto
in modo differente.
Domus	Academy,	con	i	suoi	workshop	spaccacervello,	la	sua	competition	
al MediaLab a cui sono debitore di un amico per la vita, e la sua sfida chia-
mata Apple Design Project, che ci portò sino a Cupertino, non è stata certo
una esperienza che si dimentica facilmente.
Avevamo visto tavoli interattivi composti da tavolette capaci di scam-
biarsi	informazioni	in	wireless	e	reagire	quando	si	toccavano	tra	loro,	pro-
iettori minuscoli, casse acustiche nascoste dentro ogni materiale che potesse
vibrare	almeno	un	po’,	sistemi	wireless	di	ogni	genere,	città	“intelligenti”.	
E tutto partendo da prospettive antropologiche, di design, di user centered
design. Avevamo visto il futuro o – almeno il suo concept. Il giorno del
completamento del Corso di Interaction Design sapevo – o almeno pensavo
di sapere – molte cose sul futuro di tutti, tranne che sul mio. L’unica certezza
era quella che non avrei mai fatto un lavoro “normale” e che mai più avrei
potuto vivere il presente allo stesso modo in cui lo vivevano gli amici del
Liceo di Agrigento o i colleghi universitari di Ingegneria, facoltà che abban-
donai abbastanza in fretta.
Ebbene sì, la sensazione che ho vissuto più spesso mentre dicevo “Mi
chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer” era una dissonanza
rispetto al fluire del tempo. Il mestiere di Interaction Design sembra fatto
apposta per creare problemi di identità a chi decide di svolgerlo. Composto
da materie e pratiche molto fluide, non ancorabile a tecniche e tecnologie,
interpretato da “professionisti” di varie provenienza e culture, ha sofferto e
soffre il fatto di non essere immediatamente catalogabile. Ho visto accade-
182
mici e cantinari accapigliarsi su queste etichette e mi sono sempre voltato
dall’altra parte. Prendere parte ad una polemica che – per di più – interes-
sava soltanto a questo sparuto sottoinsieme di persone che vivono in un fast
forward	del	tutto	personale,	è	più	che	una	perdita	di	tempo.		Ma	a	me	stesso	
dovevo una spiegazione, una definizione che mi consentisse di non sentirmi
un folle. Un giorno – intorno al 1999 – emerse nella mia mente la seguen-
te definizione: L’Interaction Designer è un Architetto della Relazione. Per
quanto già la figura dell’architetto – nonostante la sua veneranda età – su-
bisca ancora stravaganti interpretazioni, non vi è dubbio che sia una figura
orientata al progetto. Non un ingegnere focalizzato sulla tecnica. Non un
geometra che guarda al delivery. Non un artigiano. Mai un artista.
Un Interaction Designer dunque progetta, e si concentra non su cose in-
trinsecamente “statiche” come una sedia o un palazzo, bensì su cose dina-
miche centrate su luoghi in senso lato (reali, tradizionali, aumentati tecno-
logicamente, etc) e soprattuto sulle persone. In questo senso, la definizione
“Architetto della Relazione”, mi ha convinto. Ci ho ritrovato dentro il taglio
da dare alla mia professione, la centralità del fattore umano, l’ergonomia
cognitiva e la human computer interaction. Eccoci dunque, nuovamente a
“Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer”. Ma
a chi servirà poi questa figura professionale?
L’Italia è una terra strana. La Patria del Design, che ha Milano come
Caput Mundi. Peccato che i designer siano stati esiliati dalle aziende di pro-
duzione, che si diventi giovane designer a 50 anni (quindi io non lo sono an-
cora), e che nel frattempo il mondo abbia cominciato ad accelerare e l’Italia
industriale a svanire. La fortuna di chi nel 1997 cominciò la lunga traversata
per diventare sul serio un Designer dell’Interazione, è che il futuro andava
veloce come un treno. Ovviamente – allora – c’era una sola fermata: Internet
e	i	servizi	web.
	Personalmente,	mi	ero	ritrovato	sul	web	sin	da	subito.	Era	bastato	ve-
dere una volta Mosaic in Università per far scattare una passione infinita.
Nel 1997/8 la febbre di Internet aveva già contagiato moltissima gente e la
quantità di addetti ai lavori si moltiplicava alla velocità con cui – dieci anni
dopo – la gente si sarebbe iscritta a Facebook.
C’era, palpabile, una grande voglia di “partecipare alla rivoluzione”. Fior
di manager, attori, cantanti e persino qualche avvocato “bene” abbandona-
rono momentaneamente le loro ricche e sicure carriere per inseguire la Musa
del	web.	Tutto	questo	fermento	non	poteva	non	creare	un	business,	e	così	la	
necessità di progettare portò opportunità anche a chi si presentava dicendo:
Mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer. Con tutti que-
gli applausi tanto nessuno avrebbe sentito la vocina che – rendendosi conto
183
della portata della sfida – da dentro mi diceva “ma sei proprio sicuro che è
questo ciò che vuoi?” Ok, adesso che sei un Interaction Designer, che cosa
intendi fare tutto il giorno? La portata della rivoluzione del Web ha reso i
primi anni di professione un tour tra emozioni violente. L’Interaction Desi-
gner è stato per pochissimo tempo un “Progettista” a tutto tondo. Tra Project
Manager, Art Director e Capi d’Azienda (figure certo meno esoteriche e più
consolidate nell’immaginario quotidiano) c’era troppo poco spazio per un
“architetto della relazione”.
Così, quando flash cominciò a dare ai creativi strumenti tecnici distintivi
rispetto	ai	tradizionali	sviluppatori	software,	si	cominciò	a	confondere	la	
possibilità di creare belle transizioni grafiche con il progettare artefatti e
servizi complessi. Non era ancora arrivato il 9/11 – fine della prima rivo-
luzione della Rete – che già gli “interaction designers” si erano persi la loro
occasione. In quegli anni, non aveva molto senso dire “mi chiamo Leandro
Agrò e sono un Interaction Designer”. D’altro canto, avevo fondato la mia
società: Altoprofilo Spa, The User Experience Company. Era una Società di
Consulenza che aiutava le medie e grandi aziende “tradizionali” ad aprirsi
alla Rete. Di fatto, saltò a gambe all’aria insieme alle Torri Gemelle, travolta
dal panico degli investitori. Ma fino a quando fu in piedi, non potevo che
presentarmi come Manager e non come“Designer”.
Il crollo della Nuova Economia ha portato le aziende a concentrarsi su
aspetti considerati più concreti. Nessuno poteva ignorare la Rete o fare a
meno delle sue economie. La rivoluzione non si cancella. Però le parole chia-
ve divennero altre. Non serviva – e di fatto non era al centro delle attenzioni
neanche prima – il futurologo che progetta nuovi gadgets e servizi. Alle
aziende servivano Intranet che tagliassero i costi e “usabilità” che accele-
rasse il ritorno di investimento nei più disparati progetti finanziati al tempo
della bolla. Trascorsi un altro anno in una società di consulenza internet, e
sentendo indifendibile la figura dell’Interaction Designer, cominciai a defi-
nire me stesso in modo diverso: “Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò, mi
occupo di usabilità e user experience”. A dire la verità, per la User Expe-
rience erano ancora anni di costruzione, ma sentivo il legarmi solo all’usa-
bilità qualcosa di troppo distante dal mio ideale “archietto della Relazione”.
Dopo	aver	visto	al	lavoro	persino	i	maghi	del	NormanNielsen	Group	a	NYC	
mi sono detto: “Una cosa è smettere di pensare ai device e agli ambienti
senzienti, altro è diventare una macchina da test”. All’alba del 2002 avevo
incontrato una tecnologia acerba e terribile: l’Eye-Tracking o tracciamento
oculare. Servivano dei caschi speciali dotati di pesanti cavi e due telecamere
che ti finivano sotto agli occhi. Si doveva stare immobili. E poi... il miracolo:
il computer sapeva dove stavi guardando!
184
Decisi che se quella rozza tecnologia fosse migliorata, sarei tornato a fare
l’Interaction Designer. E alcuni anni dopo, avvenne. Nel 2004 la svedese
Tobii Technologies, neonata azienda di poche anime, ci portò a vedere il loro
eye-tracker. Era uno schermo per computer apparentemente normale. Niente
cavi, niente caschi, niente di niente. Basta fare una rapida calibrazione (<10
sec) e da quel momento il computer sa dove stai guardando. Entrai in società
nella neonata SRLABS, il primo laboratorio in Italia ad avere competenze
hardware	e	software	nell’ambito	del	tracciamento	oculare	(oggi	un	punto	di	
riferimento in tutta Europa in questo campo).
In SRLABS il punto non era ancora occuparsi di luoghi sensienti, device
“trasparenti”, tecnologie minuscole ed indossabili, che avevo nella testa dai
tempi di Domus Academy, ma c’erano altre cose: notevoli cose. Al posto del
mouse avevamo un monitor che sapeva dove si posava lo sguardo del suo
utente umano. Ma l’occhio non è fatto per muoversi come fosse un gesto. Gli
occhi compiono movimenti rapidissimi, spesso instabili e sono soggetti a
tutta una serie di movimenti automatici di cui siamo parzialmente inconsa-
pevoli. Fare una GUI perché gli occhi potessero pilotare un computer è stata
una sfida profonda e lunga. Siamo dovuti partire dalle “tecniche di intera-
zione di base” e strutturare tutta una nuova interfaccia priva di puntatori e
con sistemi per cliccare del tutto nuovi.
Oggi, in Europa, diverse centinaia di persone usano un dispositivo chia-
mato IAble. Questo sparuto gruppo di uomini e donne ha avuto una enorme
sventura, quella di imbattersi in quella che è forse la più crudele delle malat-
tie: La sclerosi laterale amiotrofica. Per loro, un computer che non richiede
alcun movimento per essere usato, è la porta verso il mondo, il modo di
chiudere una finestra, accendere una TV o anche solo chiedere un bicchie-
re d’acqua. Nel nostro piccolo, alla fine, abbiamo cambiato il mondo. La
SRLABS possiede alcuni brevetti fondamentali nel campo delle interfacce
multimodali e “handless” che vengono usati in svariati ambiti medici, ma
soprattutto è riuscita a estirpare l’isolamento totale dalla vita di molti malati.
Persino oggi che non lavoro se non saltuariamente in SRLABS, il mio uffi-
cio milanese resta lì. Ci abbiamo fatto un piccolo pezzo di storia.
Così è arrivato il 2006 e ancora di mondi fatti di device, tavoli sensienti e
dintorni non c’era neanche l’ombra. “Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò
e ho idea che il futuro debba fare ancora i conti con parecchie cose.”
Chiusa la fase Interfacce Multimodali (che non potevano diventare con-
sumer) ho centrato il mio interesse su una nuova missione impossibile: co-
struire una serie di Assistenti Virtuali Intelligenti che vivessero dentro ai
grandi	siti	web	(come	quelli	delle	banche)	per	aiutare	gli	utilizzatori	di	spe-
cifici servizi online.
185
Ho trascorso tre anni sospeso in situazioni che passavano dal fortemente
immersivo (in Second Life) a prototipi di Bancomat con signorina virtuale
dentro. In questa fase mi sono occupato di tecniche di improvvisazione te-
atrale, interfacce vocali, animazioni 3D in flash, modellazione e rendering
in real time. Come e più che in altre occasioni, l’Interaction Designer si è
trasformato in chi aveva la visione, reclutava i talenti per realizzarla, la co-
municava al mondo. Ero un manager, ormai.
Nonostante diversi successi, l’onda degli assistenti virtuali non arrivò mai
alle dimensioni necessarie. I soldi finirono e il team si sciolse. D’altro canto
avevo capito fin dall’inizio che non avrei mai avuto un lavoro “normale”.
Che fare? Dove si nascondeva quel futuro che pensavo di aver visto già
da tempo?
Forse	era	sui	Social	Network,	grande	imprevisto	di	tutti	i	futurologi	(a	
parte	Howard	Rheingold	con	SmartMobs	e	Kevin	Kelly	in	Out	of	Control,	
nessuno aveva previsto scenari simili) e – se mi ci fossi gettato dentro – di
certo	mi	sarei	trovato	un	lavoro	semi-normale	come	ai	tempi	del	web,	ma	
purtroppo... Pensai con il cuore, cosa che un designer non dovrebbe fare e ad
un imprenditore dovrebbe essere vietata, ed ebbi una nuova “visione”: vidi
Al Gore tentare di spiegare al mondo che la crisi climatica era una faccen-
da seria. Vidi gli strumenti che usava e pensai: ehi, ma noi tutti possiamo
fare qualcosa. La CO2 non posso solo calcolarla, posso misurarla. Mi basta
un sensore, un device bluetooth, un telefonino... Insomma, ancora prima di
capire se tutto ciò aveva davvero senso, stavo nuovamente reclutando intel-
ligenze incredibili e montando il primo prototipo. Noi avremmo costruito
alcuni	dei	pezzi	di	base,	la	gente	dei	Social	Network	avrebbe	fatto	il	re-
sto. Ebbi la fortuna di parlare del mio progetto con Bruce Sterling, scrittore
di Science Fiction inventore del neologismo SPIME, crasi di SPACE and
TIME, che identifica una nuova generazione di oggetti senzienti. La deci-
sione era praticamente già presa quando mi arrivò la proposta di guidare un
team di Interaction che stava progettando un nuovo sistema operativo.
La domanda non era solo relativa al rischio imprenditoriale vs lo stipendio.
La domanda era: quanto veloce è il futuro che inseguo da anni? È veloce al
punto tale da pormi dinanzi ad una nuova rivoluzione, chiamata Internet degli
Oggetti, già nel giro di due anni? Oppure è un futuro “lento” che trova spazio
persino per un altro OS? Non credo, possa essere tutte e due le cose insieme.
Se non altro per le vie monotematiche che spesso il mercato predilige. Decisi
che la Internet degli oggetti non doveva essere poi così lontana, e con lei arri-
vava una grande promessa: ad ogni ondata tecnologica si generano nuovi ruoli
per	gli	outsider.	Google,	come	YouTube,	Flickr	o	Facebook	non	esistevano	
prima	del	web2.	Forse	avremmo	avuto	anche	noi	la	nostra	occasione.
186
Messa al lavoro la squadra e girato un movie dimostrativo di grande im-
patto, andammo alla Emerging Technology Conference 2008 con il prototi-
po in saccoccia ed il tempismo fu incredibile. Era l’anno della alleanza tra
Green e Geek. La parola SPIME – su cui noi avevamo costruito il proto-
collo di comunicazione OpenSource da noi inventato – era la parola chiave
della Conferenza. iPhone rappresentava l’archetipo di quel futuro visto nei
“sogni” di studente di Domus Academy. Arduino – azienda italiana nata
anch’essa dal mondo dell’Interaction Design – lanciava il concetto di Har-
dware	Open	Source.	Noi	di	Widetag	–	così	chiamai	la	startup	che	feci	nasce-
re	californiana	–	il	concetto	di	“Hardware	Sociale”.
Nell’Agosto 2008, a pochi mesi da questo sfolgorante inizio, l’economia
del pianeta subì un crollo verticale. Era come fossero nuovamente crollate
le Torri, anzi molto peggio. Mi trovai così ancora una volta ad attendere un
futuro che non ne voleva sapere di incontrare l’oggi.
Eppure...
Solo i prodotti e servizi connessi e sociali hanno spazio nel nostro
futuro. Neanche i più recenti navigatori satellitari, gadget irrinunciabili sol-
tanto da un paio di anni a questa parte, potranno avere futuro se non sen-
zienti e non connessi. Gli unici prodotti e servizi di cui davvero abbiamo
bisogno sono quelli connessi con noi ed il nostro mondo di relazioni umane,
tramite	i	social	network	Se	anche	consideriamo	la	lunga	coda	dei	gadget	di	
prossima emersione, come gli attrezzi per il fitness, i sensori ambientali, la
data	collection	fatta	con	terminali	mobili,	gli	hardware	sociali	da	intratte-
nimento, è evidente come una delle necessità maggiori sarà la gestione di
questo crescente volume di comunicazioni. WideTag nel 2009 è stata inseri-
ta – così come Arduino – nella TOP10 INTERNET of THINGS PRODUCT
del	New	York	Times	per	la	sua	applicazione	iPhone	“WideNoise”.	WideTag	
ha	prodotto	un	software	dal	nome	WideSpime,	che	consente	la	connessione	
contemporanea ed il dialogo in tempo reale tra milioni di device internet. La
sua capacità di calcolo in tempo reale consente la creazione di contesti “so-
ciali”	online	dove	gli	hardware	hanno	accesso	immediato	ai	network	“uma-
ni” e sono capaci di comunicare tra loro con una autonomia ed efficienza da
record.
Questo	layer	software	è	l’abilitatore	che	consente	il	rapido	sviluppo	di	
innumerevoli materializzazioni della Internet degli Oggetti. Molti i campi
di applicazione, come per esempio: il monitoraggio automatico (tipico di
contesti industriali o business), le città intelligenti (gestione traffico, rileva-
mento	inquinanti,	gestione	crisi),	i	sensori	su	mobile,	gli	hardware	sociali	da	
intrattenimento, le applicazioni di monitoraggio personale, gli strumenti per
la gestione dell’energia, il check-up continuo, l’ecologia dal basso.
187
Così,	mentre	i	Nabaztag	(conigli	wifi)	tendono	a	evolversi	o	scomparire,	
emergono	le	bilance	wifi	connesse	a	facebook,	le	applicazioni	iPhone	per	
il self tracking, i prototipi di coccodrilli USB, i sensori da collegare ad An-
droid che trasformano un “cellulare” in una stazione di rilevamento ambien-
tale ed ogni giorno – la coda lunga dei gadget – si popola di nuovi progetti.
La strada per l’Interaction Design è nuovamente aperta e finalmente
OGGI esistono le tecnologie per realizzare il futuro che desideriamo. Sono
certo, sarà migliore di quello pensato dai concept anni ’90. Certamente più
largo, inclusivo, sostenibile.
Mi chiamo Leandro Agrò, e faccio l’Interaction Designer, ovvero proget-
to oggetti e sistemi per la Internet delle Cose.

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  • 1. FRANCOANGELI/Didattica del Progetto INDEX Un percorso di specializzazione in Interaction Design Experience a cura di Sebastiano Bagnara e Mario Mattioda
  • 2. 181 Il ritorno al futuro dell’Interaction design di Leandro Agrò Mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer. Questa frase l’ho detta molte volte dal 1997, anno in cui sono uscito da Domus Academy. Eppure, negli anni, ha avuto un senso molto diverso, e io stesso ci ho creduto in modo differente. Domus Academy, con i suoi workshop spaccacervello, la sua competition al MediaLab a cui sono debitore di un amico per la vita, e la sua sfida chia- mata Apple Design Project, che ci portò sino a Cupertino, non è stata certo una esperienza che si dimentica facilmente. Avevamo visto tavoli interattivi composti da tavolette capaci di scam- biarsi informazioni in wireless e reagire quando si toccavano tra loro, pro- iettori minuscoli, casse acustiche nascoste dentro ogni materiale che potesse vibrare almeno un po’, sistemi wireless di ogni genere, città “intelligenti”. E tutto partendo da prospettive antropologiche, di design, di user centered design. Avevamo visto il futuro o – almeno il suo concept. Il giorno del completamento del Corso di Interaction Design sapevo – o almeno pensavo di sapere – molte cose sul futuro di tutti, tranne che sul mio. L’unica certezza era quella che non avrei mai fatto un lavoro “normale” e che mai più avrei potuto vivere il presente allo stesso modo in cui lo vivevano gli amici del Liceo di Agrigento o i colleghi universitari di Ingegneria, facoltà che abban- donai abbastanza in fretta. Ebbene sì, la sensazione che ho vissuto più spesso mentre dicevo “Mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer” era una dissonanza rispetto al fluire del tempo. Il mestiere di Interaction Design sembra fatto apposta per creare problemi di identità a chi decide di svolgerlo. Composto da materie e pratiche molto fluide, non ancorabile a tecniche e tecnologie, interpretato da “professionisti” di varie provenienza e culture, ha sofferto e soffre il fatto di non essere immediatamente catalogabile. Ho visto accade-
  • 3. 182 mici e cantinari accapigliarsi su queste etichette e mi sono sempre voltato dall’altra parte. Prendere parte ad una polemica che – per di più – interes- sava soltanto a questo sparuto sottoinsieme di persone che vivono in un fast forward del tutto personale, è più che una perdita di tempo. Ma a me stesso dovevo una spiegazione, una definizione che mi consentisse di non sentirmi un folle. Un giorno – intorno al 1999 – emerse nella mia mente la seguen- te definizione: L’Interaction Designer è un Architetto della Relazione. Per quanto già la figura dell’architetto – nonostante la sua veneranda età – su- bisca ancora stravaganti interpretazioni, non vi è dubbio che sia una figura orientata al progetto. Non un ingegnere focalizzato sulla tecnica. Non un geometra che guarda al delivery. Non un artigiano. Mai un artista. Un Interaction Designer dunque progetta, e si concentra non su cose in- trinsecamente “statiche” come una sedia o un palazzo, bensì su cose dina- miche centrate su luoghi in senso lato (reali, tradizionali, aumentati tecno- logicamente, etc) e soprattuto sulle persone. In questo senso, la definizione “Architetto della Relazione”, mi ha convinto. Ci ho ritrovato dentro il taglio da dare alla mia professione, la centralità del fattore umano, l’ergonomia cognitiva e la human computer interaction. Eccoci dunque, nuovamente a “Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer”. Ma a chi servirà poi questa figura professionale? L’Italia è una terra strana. La Patria del Design, che ha Milano come Caput Mundi. Peccato che i designer siano stati esiliati dalle aziende di pro- duzione, che si diventi giovane designer a 50 anni (quindi io non lo sono an- cora), e che nel frattempo il mondo abbia cominciato ad accelerare e l’Italia industriale a svanire. La fortuna di chi nel 1997 cominciò la lunga traversata per diventare sul serio un Designer dell’Interazione, è che il futuro andava veloce come un treno. Ovviamente – allora – c’era una sola fermata: Internet e i servizi web. Personalmente, mi ero ritrovato sul web sin da subito. Era bastato ve- dere una volta Mosaic in Università per far scattare una passione infinita. Nel 1997/8 la febbre di Internet aveva già contagiato moltissima gente e la quantità di addetti ai lavori si moltiplicava alla velocità con cui – dieci anni dopo – la gente si sarebbe iscritta a Facebook. C’era, palpabile, una grande voglia di “partecipare alla rivoluzione”. Fior di manager, attori, cantanti e persino qualche avvocato “bene” abbandona- rono momentaneamente le loro ricche e sicure carriere per inseguire la Musa del web. Tutto questo fermento non poteva non creare un business, e così la necessità di progettare portò opportunità anche a chi si presentava dicendo: Mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer. Con tutti que- gli applausi tanto nessuno avrebbe sentito la vocina che – rendendosi conto
  • 4. 183 della portata della sfida – da dentro mi diceva “ma sei proprio sicuro che è questo ciò che vuoi?” Ok, adesso che sei un Interaction Designer, che cosa intendi fare tutto il giorno? La portata della rivoluzione del Web ha reso i primi anni di professione un tour tra emozioni violente. L’Interaction Desi- gner è stato per pochissimo tempo un “Progettista” a tutto tondo. Tra Project Manager, Art Director e Capi d’Azienda (figure certo meno esoteriche e più consolidate nell’immaginario quotidiano) c’era troppo poco spazio per un “architetto della relazione”. Così, quando flash cominciò a dare ai creativi strumenti tecnici distintivi rispetto ai tradizionali sviluppatori software, si cominciò a confondere la possibilità di creare belle transizioni grafiche con il progettare artefatti e servizi complessi. Non era ancora arrivato il 9/11 – fine della prima rivo- luzione della Rete – che già gli “interaction designers” si erano persi la loro occasione. In quegli anni, non aveva molto senso dire “mi chiamo Leandro Agrò e sono un Interaction Designer”. D’altro canto, avevo fondato la mia società: Altoprofilo Spa, The User Experience Company. Era una Società di Consulenza che aiutava le medie e grandi aziende “tradizionali” ad aprirsi alla Rete. Di fatto, saltò a gambe all’aria insieme alle Torri Gemelle, travolta dal panico degli investitori. Ma fino a quando fu in piedi, non potevo che presentarmi come Manager e non come“Designer”. Il crollo della Nuova Economia ha portato le aziende a concentrarsi su aspetti considerati più concreti. Nessuno poteva ignorare la Rete o fare a meno delle sue economie. La rivoluzione non si cancella. Però le parole chia- ve divennero altre. Non serviva – e di fatto non era al centro delle attenzioni neanche prima – il futurologo che progetta nuovi gadgets e servizi. Alle aziende servivano Intranet che tagliassero i costi e “usabilità” che accele- rasse il ritorno di investimento nei più disparati progetti finanziati al tempo della bolla. Trascorsi un altro anno in una società di consulenza internet, e sentendo indifendibile la figura dell’Interaction Designer, cominciai a defi- nire me stesso in modo diverso: “Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò, mi occupo di usabilità e user experience”. A dire la verità, per la User Expe- rience erano ancora anni di costruzione, ma sentivo il legarmi solo all’usa- bilità qualcosa di troppo distante dal mio ideale “archietto della Relazione”. Dopo aver visto al lavoro persino i maghi del NormanNielsen Group a NYC mi sono detto: “Una cosa è smettere di pensare ai device e agli ambienti senzienti, altro è diventare una macchina da test”. All’alba del 2002 avevo incontrato una tecnologia acerba e terribile: l’Eye-Tracking o tracciamento oculare. Servivano dei caschi speciali dotati di pesanti cavi e due telecamere che ti finivano sotto agli occhi. Si doveva stare immobili. E poi... il miracolo: il computer sapeva dove stavi guardando!
  • 5. 184 Decisi che se quella rozza tecnologia fosse migliorata, sarei tornato a fare l’Interaction Designer. E alcuni anni dopo, avvenne. Nel 2004 la svedese Tobii Technologies, neonata azienda di poche anime, ci portò a vedere il loro eye-tracker. Era uno schermo per computer apparentemente normale. Niente cavi, niente caschi, niente di niente. Basta fare una rapida calibrazione (<10 sec) e da quel momento il computer sa dove stai guardando. Entrai in società nella neonata SRLABS, il primo laboratorio in Italia ad avere competenze hardware e software nell’ambito del tracciamento oculare (oggi un punto di riferimento in tutta Europa in questo campo). In SRLABS il punto non era ancora occuparsi di luoghi sensienti, device “trasparenti”, tecnologie minuscole ed indossabili, che avevo nella testa dai tempi di Domus Academy, ma c’erano altre cose: notevoli cose. Al posto del mouse avevamo un monitor che sapeva dove si posava lo sguardo del suo utente umano. Ma l’occhio non è fatto per muoversi come fosse un gesto. Gli occhi compiono movimenti rapidissimi, spesso instabili e sono soggetti a tutta una serie di movimenti automatici di cui siamo parzialmente inconsa- pevoli. Fare una GUI perché gli occhi potessero pilotare un computer è stata una sfida profonda e lunga. Siamo dovuti partire dalle “tecniche di intera- zione di base” e strutturare tutta una nuova interfaccia priva di puntatori e con sistemi per cliccare del tutto nuovi. Oggi, in Europa, diverse centinaia di persone usano un dispositivo chia- mato IAble. Questo sparuto gruppo di uomini e donne ha avuto una enorme sventura, quella di imbattersi in quella che è forse la più crudele delle malat- tie: La sclerosi laterale amiotrofica. Per loro, un computer che non richiede alcun movimento per essere usato, è la porta verso il mondo, il modo di chiudere una finestra, accendere una TV o anche solo chiedere un bicchie- re d’acqua. Nel nostro piccolo, alla fine, abbiamo cambiato il mondo. La SRLABS possiede alcuni brevetti fondamentali nel campo delle interfacce multimodali e “handless” che vengono usati in svariati ambiti medici, ma soprattutto è riuscita a estirpare l’isolamento totale dalla vita di molti malati. Persino oggi che non lavoro se non saltuariamente in SRLABS, il mio uffi- cio milanese resta lì. Ci abbiamo fatto un piccolo pezzo di storia. Così è arrivato il 2006 e ancora di mondi fatti di device, tavoli sensienti e dintorni non c’era neanche l’ombra. “Buongiorno, mi chiamo Leandro Agrò e ho idea che il futuro debba fare ancora i conti con parecchie cose.” Chiusa la fase Interfacce Multimodali (che non potevano diventare con- sumer) ho centrato il mio interesse su una nuova missione impossibile: co- struire una serie di Assistenti Virtuali Intelligenti che vivessero dentro ai grandi siti web (come quelli delle banche) per aiutare gli utilizzatori di spe- cifici servizi online.
  • 6. 185 Ho trascorso tre anni sospeso in situazioni che passavano dal fortemente immersivo (in Second Life) a prototipi di Bancomat con signorina virtuale dentro. In questa fase mi sono occupato di tecniche di improvvisazione te- atrale, interfacce vocali, animazioni 3D in flash, modellazione e rendering in real time. Come e più che in altre occasioni, l’Interaction Designer si è trasformato in chi aveva la visione, reclutava i talenti per realizzarla, la co- municava al mondo. Ero un manager, ormai. Nonostante diversi successi, l’onda degli assistenti virtuali non arrivò mai alle dimensioni necessarie. I soldi finirono e il team si sciolse. D’altro canto avevo capito fin dall’inizio che non avrei mai avuto un lavoro “normale”. Che fare? Dove si nascondeva quel futuro che pensavo di aver visto già da tempo? Forse era sui Social Network, grande imprevisto di tutti i futurologi (a parte Howard Rheingold con SmartMobs e Kevin Kelly in Out of Control, nessuno aveva previsto scenari simili) e – se mi ci fossi gettato dentro – di certo mi sarei trovato un lavoro semi-normale come ai tempi del web, ma purtroppo... Pensai con il cuore, cosa che un designer non dovrebbe fare e ad un imprenditore dovrebbe essere vietata, ed ebbi una nuova “visione”: vidi Al Gore tentare di spiegare al mondo che la crisi climatica era una faccen- da seria. Vidi gli strumenti che usava e pensai: ehi, ma noi tutti possiamo fare qualcosa. La CO2 non posso solo calcolarla, posso misurarla. Mi basta un sensore, un device bluetooth, un telefonino... Insomma, ancora prima di capire se tutto ciò aveva davvero senso, stavo nuovamente reclutando intel- ligenze incredibili e montando il primo prototipo. Noi avremmo costruito alcuni dei pezzi di base, la gente dei Social Network avrebbe fatto il re- sto. Ebbi la fortuna di parlare del mio progetto con Bruce Sterling, scrittore di Science Fiction inventore del neologismo SPIME, crasi di SPACE and TIME, che identifica una nuova generazione di oggetti senzienti. La deci- sione era praticamente già presa quando mi arrivò la proposta di guidare un team di Interaction che stava progettando un nuovo sistema operativo. La domanda non era solo relativa al rischio imprenditoriale vs lo stipendio. La domanda era: quanto veloce è il futuro che inseguo da anni? È veloce al punto tale da pormi dinanzi ad una nuova rivoluzione, chiamata Internet degli Oggetti, già nel giro di due anni? Oppure è un futuro “lento” che trova spazio persino per un altro OS? Non credo, possa essere tutte e due le cose insieme. Se non altro per le vie monotematiche che spesso il mercato predilige. Decisi che la Internet degli oggetti non doveva essere poi così lontana, e con lei arri- vava una grande promessa: ad ogni ondata tecnologica si generano nuovi ruoli per gli outsider. Google, come YouTube, Flickr o Facebook non esistevano prima del web2. Forse avremmo avuto anche noi la nostra occasione.
  • 7. 186 Messa al lavoro la squadra e girato un movie dimostrativo di grande im- patto, andammo alla Emerging Technology Conference 2008 con il prototi- po in saccoccia ed il tempismo fu incredibile. Era l’anno della alleanza tra Green e Geek. La parola SPIME – su cui noi avevamo costruito il proto- collo di comunicazione OpenSource da noi inventato – era la parola chiave della Conferenza. iPhone rappresentava l’archetipo di quel futuro visto nei “sogni” di studente di Domus Academy. Arduino – azienda italiana nata anch’essa dal mondo dell’Interaction Design – lanciava il concetto di Har- dware Open Source. Noi di Widetag – così chiamai la startup che feci nasce- re californiana – il concetto di “Hardware Sociale”. Nell’Agosto 2008, a pochi mesi da questo sfolgorante inizio, l’economia del pianeta subì un crollo verticale. Era come fossero nuovamente crollate le Torri, anzi molto peggio. Mi trovai così ancora una volta ad attendere un futuro che non ne voleva sapere di incontrare l’oggi. Eppure... Solo i prodotti e servizi connessi e sociali hanno spazio nel nostro futuro. Neanche i più recenti navigatori satellitari, gadget irrinunciabili sol- tanto da un paio di anni a questa parte, potranno avere futuro se non sen- zienti e non connessi. Gli unici prodotti e servizi di cui davvero abbiamo bisogno sono quelli connessi con noi ed il nostro mondo di relazioni umane, tramite i social network Se anche consideriamo la lunga coda dei gadget di prossima emersione, come gli attrezzi per il fitness, i sensori ambientali, la data collection fatta con terminali mobili, gli hardware sociali da intratte- nimento, è evidente come una delle necessità maggiori sarà la gestione di questo crescente volume di comunicazioni. WideTag nel 2009 è stata inseri- ta – così come Arduino – nella TOP10 INTERNET of THINGS PRODUCT del New York Times per la sua applicazione iPhone “WideNoise”. WideTag ha prodotto un software dal nome WideSpime, che consente la connessione contemporanea ed il dialogo in tempo reale tra milioni di device internet. La sua capacità di calcolo in tempo reale consente la creazione di contesti “so- ciali” online dove gli hardware hanno accesso immediato ai network “uma- ni” e sono capaci di comunicare tra loro con una autonomia ed efficienza da record. Questo layer software è l’abilitatore che consente il rapido sviluppo di innumerevoli materializzazioni della Internet degli Oggetti. Molti i campi di applicazione, come per esempio: il monitoraggio automatico (tipico di contesti industriali o business), le città intelligenti (gestione traffico, rileva- mento inquinanti, gestione crisi), i sensori su mobile, gli hardware sociali da intrattenimento, le applicazioni di monitoraggio personale, gli strumenti per la gestione dell’energia, il check-up continuo, l’ecologia dal basso.
  • 8. 187 Così, mentre i Nabaztag (conigli wifi) tendono a evolversi o scomparire, emergono le bilance wifi connesse a facebook, le applicazioni iPhone per il self tracking, i prototipi di coccodrilli USB, i sensori da collegare ad An- droid che trasformano un “cellulare” in una stazione di rilevamento ambien- tale ed ogni giorno – la coda lunga dei gadget – si popola di nuovi progetti. La strada per l’Interaction Design è nuovamente aperta e finalmente OGGI esistono le tecnologie per realizzare il futuro che desideriamo. Sono certo, sarà migliore di quello pensato dai concept anni ’90. Certamente più largo, inclusivo, sostenibile. Mi chiamo Leandro Agrò, e faccio l’Interaction Designer, ovvero proget- to oggetti e sistemi per la Internet delle Cose.