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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE
                                      Facoltà di Ingegneria
                           Corso di laurea specialistica in Architettura
                                Dipartimento di Ingegneria Civile




                            ARCHITETTURA IN MOVIMENTO:
   PROGETTO DI UNA UNITÀ MOBILE DI SOCCORSO SANITARIO (U.M.S.S.)




Relatore                                                                   Laureanda
Prof. Lodovico Tramontin                                                   Chiara Pasut

Correlatrice
Dott.sa Anna Poggi




                                  Anno Accademico 2007/2008
Il tema della mobilità è sempre stato un concetto che ha affascinato numerosi architetti.
Il sogno di poter svincolare l’architettura dal concetto di staticità che è insito nella sua definizione ha prodotto innumerevoli
progetti e visioni. La mobilità può essere interpretata in diverse maniere nell’ambito edilizio, può essere vista come edificio
che si muove da un luogo ad un altro, o come singolo componente mobile facente parte di un’architettura tradizionale, ecc.
Molti pensano che l’essere mobile sia una caratteristica dell’architettura contemporanea, in cui i sistemi trasportabili e
facilmente trasformabili vengano richiesti come spazi temporanei ospitanti manifestazioni itineranti, mostre o attività che
hanno una durata limitata nel tempo. Questo è in parte vero, ma esiste anche un ambito architettonico che si basa sulla
temporaneità dell’architettura e del costruito, che è quello dei ripari temporanei, comunemente chiamati shelter.
Gli shelter in genere sono dei sistemi assemblati a secco che devono provvedere a fornire un riparo alle persone, possono
essere abitazioni, luoghi di lavoro, spazi per la collettività, comunque tutti temporanei.
Questa tesi vuole affrontare il concetto di shelter come unità mobile di soccorso sanitario in caso di maxi emergenza.
Quindi garantire un riparo al personale sanitario in una situazione di crisi in cui sono coinvolte un numero medio alto di
persone, le quali devono necessariamente ricevere le prime cure sul luogo del sinistro prima di venir smistate ai vari ospedali.
Dal punto di vista medico questo genere di situazioni, nelle nazioni più evolute, è strettamente regolamentato e vi sono dei
protocolli comuni che dovrebbero garantire la corretta catena dei soccorsi. In questa, è precisamente definito il tipo di shelter
da utilizzare e le funzioni che tale struttura deve assolvere.
Proprio perché le situazioni di crisi non sono strettamente prevedibili e gli scenari possono essere innumerevoli, gli shelter
devono essere facilmente trasportabili, trasformabili, flessibili ed adattabili.
È stato dunque necessario approfondire la tematica della progettazione a supporto delle situazioni d’emergenza, della mobilità
nell’ambito architettonico e le relative tecnologie, ed infine i protocolli che regolano le varie attività mediche.
Il risultato è il progetto di una unità mobile di soccorso sanitario (UMMS) che è concepita come luogo funzionale al
corretto svolgimento delle operazioni mediche e come architettura mobile, facilmente trasportabile (facendo attenzione quindi
anche al fattore peso), flessibile a possibili cambiamenti dello scenario della crisi e adattabile ai possibili ambienti.
Il primo capitolo della tesi affronta il tema del rapporto tra progettista e situazione di emergenza, in cui il professionista viene
chiamato per definire delle soluzioni a supporto della crisi. La maggior parte delle richieste da parte delle organizzazioni
umanitarie e degli enti governativi ai progettisti è quella di pensare e rendere fattibile un riparo che riesca a garantire, in
brevissimo tempo, la sicurezza delle persone coinvolte.
Le considerazioni di Cameron Sinclair, a capo dello studio di architettura Architecture for Humanity, vengono intrecciate con
quelle di Enzo Mari relative al percorso progettuale di un industrial designer.
In entrambi i casi, per quei campi progettuali che hanno un grado di complessità elevato, viene segnalata la necessita di
collaborare con persone che per professione si occupano costantemente della tematica per poter individuare in maniera
rapida i problemi.
Vengono poi individuati in generale i vari momenti di intervento in situazioni di crisi (emergenza, riabilitazione, ricostruzione)
e i requisiti caratterizzanti il progetto per l’emergenza attraverso le linee guida dell’International Conference on Disaster Area
Housing . Per concludere tali considerazioni si sottolinea come i quattro punti che propone Enzo Mari per poter ottenere un
buon progetto (componente etica, qualità culturale, strumenti di produzione e attinenza tra prodotto e possibile produzione)
siano fondamentali quando si parla di progetto per l’emergenza.
Il capitolo prosegue con una veloce presentazione dei primi progetti che fino alla prima metà del XX secolo hanno cercato di
garantire un riparo alle persone sfollate sia a causa di disastri naturali, ma soprattutto della Seconda Guerra Mondiale. Dopo
questo drammatico evento si è cominciato a trattare sistematicamente il problema della fornitura di shelter alla popolazione,
dapprima come forma temporanea di abitazione e successivamente come struttura di supporto anche per le altre attività,
comprese quelle mediche.
I progetti che vengono presentati sono relativi a soluzioni studiate per le crisi umanitarie in quanto questo campo è da sempre
il settore in cui, purtroppo, vi è la maggiore richiesta di shelter. Inoltre l’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU,
fornisce dei manuali e dei documenti dove vengono fornite dettagliate informazioni circa l’allestimento e l’utilizzo degli shelter.
Queste sono rivolte principalmente agli operatori UNHCR ma sono utili anche ai progettisti che intendono cimentarsi con il
progetto per l’emergenza in quanto definiscono in modo chiaro e preciso le problematiche, le necessità e le caratteristiche di
uno shelter. Per questo, sebbene tali progetti non siano legati strettamente al campo medico, è stato utile studiare le soluzioni
adottate per affrontare la fase progettuale. Si è potuto così constatare che non sempre la soluzione ottimale è definita attra-
verso un progetto contenete dell’alta tecnologia, ma che anche piccoli accorgimenti possono risolvere problematiche che
possono rivelarsi drammatiche sul lungo periodo.
Un esempio è senza dubbio l’utilizzo dei paper-tube introdotto da Shigeru Ban per le strutture delle tende dei campi profughi
in Ruanda e il successivo utilizzo degli stessi nelle città colpite da terremoti in Giappone, Turchia ed India.
Con i tubi di cartone nel primo caso si è evitato il disboscamento delle aree limitrofe ai campi profughi che avrebbe potuto
portare a smottamenti e successive ulteriori situazioni di pericolo.
La presentazione dei progetti per l’emergenza umanitaria è introdotta da quelle soluzioni che hanno riconsiderato la
tradizionale tenda, composta da un singolo telo di plastica sostenuto da pali, utilizzata dalle organizzazioni umanitarie come
primo supporto alla popolazione; si è proseguito con l’illustrazione di strutture più stabili e protettive e si è finito con due
esempio di prodotti industriali atti a migliorare le condizioni di vita degli utilizzatori.
A fine capitolo si è voluto analizzare l’opera di Lucy Orta per dimostrare come l’arte permetta, citando le parole di Sigfried
Giedion, “di scorgere ciò che per nostro conto non siamo stati capaci di afferrare” .1
Il secondo capitolo è dedicato all’approfondimento dell’architettura in movimento, del suo maggior esponente, Richard
Buckminster Fuller, e all’analisi dello scenario contemporaneo.
Colui che probabilmente per primo ha sperimentato le possibilità della mobilità in architettura e soprattutto ha ridefinito
lo standard degli shelter è Richard Buckminster Fuller. Figura quasi leggendaria, inventore ed esploratore delle possibilità
costruttive è stato il primo a intravedere nella riconversione dell’industria bellica e nel transfert tecnologico tra industria
aerospaziale ed architettura, la strada verso il rinnovamento del campo edilizio. Con la sua Dymaxion Development Unit, poi
diventata House, ha rivoluzionato il concetto di abitazione, ancor prima di quella di shelter, con una grado di flessibilità e
adattabilità raggiunto da pochi.
Ancora più importanti i suoi studi relativi alle cupole geodetiche, strutture capaci di avere un equilibrio interno grazie
all’interazione tra forze di trazione e compressione. Queste strutture trovarono largo impiego nel settore militare, come riparo
per i radar e varie attrezzature militari, ma riuscirono ad imporsi anche come elemento architettonico, sottoforma di abitazioni
e padiglioni.
Il lascito di Fuller che più ha condizionato ed influenzato le generazioni successive è probabilmente l’idea di contaminare il
progetto con i saperi dei settori a più alto grado di innovazione per migliorare le condizioni abitative.
Nello scenario contemporaneo possono essere individuati tre livelli di “portabilità”, individuati da Robert Kronenburg2,
dell’architettura mobile: i portable buildings, i relocateble buildings e i demontable building.
Nel primo caso sono sistemi che vengono trasportati intatti e possono essere identificati con il termine di “semovente”
proposto da Alessandra Zanelli3; nel secondo caso hanno parti preassemblate e sono parzialmente integrati al sistema
di trasporto, possono essere detti anche “semi-autonomi”; infine quei sistemi che sono pensati per essere assemblati e
dissassemblati, detti anche “portatili”.
Trasportabilità, trasformabilità, flessibilità, adattabilità sono le parole chiave per un progetto generalmente detto di architettura
portatile.
La trasportabilità è a sua volta correlata con la leggerezza o la pesantezza del sistema; la trasformabilità permette un
diverso utilizzo del sistema grazie al suo cambiamento di forma, colore, apparenza; la flessibilità permette all’elemento di
poter rispondere in maniera ottimale ai cambiamenti d’uso e di localizzazione; infine un edificio adattabile è concepito per
poter rispondere in maniera rapida alle differenti funzioni, configurazioni e richieste degli utenti.
Nel quarto paragrafo viene affrontata la mobilità dal punto di vista del sistema mobile per eccellenza: la tenda.
Questa infatti, grazie alla sua storia millenaria, è riuscita a rimanere una dei sistemi di shelter più utilizzati, soprattutto dalle
popolazioni nomadi. Il suo punto di forza è senza dubbio la facilità di trasporto, la leggerezza, la flessibilità d’uso.
Già le popolazioni nomadi hanno imparato a ripararsi dalle avverse condizioni ambientali attraverso alcuni accorgimenti
apportati ai tessuti, ma è attualmente nelle tende per spedizioni alpinistiche che la ricerca ha permesso di avere un
avanzamento tecnologico.
Parallelamente in ambito architettonico si sono sviluppati i sistemi tensostrutturali e presso strutturali.
I primi vengono oggigiorno visti con estremo interesse per perseguire la strada della leggerezza, la quale non significa
solamente chiara idea progettuale ma anche risparmio di materiali durante la costruzione di un edificio.
Nel campo delle tensostrutture si può trovare uno dei settori di innovazione dell’edilizia. Le aziende produttrici di membrane
infatti stanno cercando di attuare dei transfert tecnologici dal settore aerospaziale per migliorare i loro prodotti.
Uno di questi casi è quello del prodotto Tensotherm della ditta Birdair che ha applicato alla tradizionale membrana in PTFE
uno strato intermedio di aerogel di silice. L’aerogel è un materiale molto leggero che però garantisce un elevato isolamento
termico su spessori limitati. Inoltre assolve anche alla funzione di isolante acustico.
Nell’approfondimento sull’aerogel si può vedere come questo materiale, dapprima utilizzato dalla Nasa come materiale per
raccogliere la polvere stellare, negli ultimi anni ha destato l’attenzione anche dei progettisti edili per le sue eccellenti proprietà
isolanti.
Vi è poi anche una riflessione su un possibile ulteriore miglioramento delle prestazioni della membrana se venisse utilizzato
l’aerogel addizionato con i materiali a cambiamento di fase (brevetto WO/2007/014284) e sulla questione della mancanza di

1 Sigfried Giedion, Spazio, Tempo, Architettura, Ulrico Hoepli editore, 1965, Milano
2 Robert Kronenburg, Portable Architecture. Design and Technology, Birkhauser Verlag AG, 2008, Basel- Boston - Berlin
  Robert Kronenburg, Flexible,architecture that responds to change, Laurence King Publishing, 2007, Londra
3 Alessandra Zanelli, Trasportabile/Trasformabile. Idee e tecniche per architetture in movimento, Libreria Clup, 2003, Milano.
uno standard comune alle aziende del settore edile per la diffusione delle principali caratteristiche.
Nel campo delle tensostruttre non tutti i produttori ad esempio inseriscono nelle loro schede tecniche il peso del materiale,
altri non indicano i valori di rifrazione delle radiazioni, ecc.
Un confronto prestazionale preciso risulta essere difficoltoso per il progettista soprattutto se deve confrontarsi con quei termini
che sono il filo conduttore della ricerca di questa tesi: trasportabilità, trasformabiltà, flessibilità ed adattabilità.
Quindi con questioni come quelle del peso, quelle climatiche e di adattabilità ambientale.
Con il quinto capitolo si sono identificati i requisiti principali prescritti dalle varie normative, direttive e protocolli che una unità
mobile di soccorso sanitario deve avere.
Necessario è risultato introdurre il concetto di maxi-emergenza, cioè quella situazione che prevarica il normale funzionamento
dei soccorsi ospedalieri e in cui i sistemi medici mobili devono operare; una situazione eccezionale, che vede il
coinvolgimento di un numero significativo di persone e che richiede un filtraggio dei feriti prima che questi vengano trasportati
nei vari ospedali.
Per far fronte a queste situazioni gli ospedali sono attrezza con strutture chiamate PMA, posti medici avanzati, che a
seconda delle loro tipologie possono essere direttamente ricondotte alla classificazione proposta da Kronenburg.
Esistono infatti PMA che possono essere considerati dei portable buildings (PMA furgonati), relocateble buildings
(PMA conteinerizzati ), demontable building (PMA sottoforma di tende), ognuno ha i propri vantaggi e svantaggi che sono stati
analizzati e comparati.
I PMA sono le unità mobili di soccorso sanitario che comportano più limitazioni progettuali in quanto sono sistemi che devono
essere disponibili e assemblabili in un breve lasso di tempo (in genere 1 ora dall’arrivo sul luogo del sinistro).
La funzione di PMA è infatti quella di essere il filtro tra l’area del sinistro (cantiere in termine medico) e gli ospedali.
Tale operazione è necessaria in quanto non è possibile trasportare tutti i feriti in un unico ospedale, magari in quello più vicino.
Ogni ospedale è predisposto ad accogliere un numero limitato di feriti gravi contemporaneamente, non è possibile per i medici
seguire contemporaneamente più di un numero prestabilito di casi in cui le funzioni vitali del sinistrato siano seriamente a
rischio.
Per questo l’unità mobile è predisposta per eseguire il cosiddetto triage, cioè quella procedura che stabilisce il grado di
criticità della situazione del paziente, la stabilizzazione di quest’ultimo e il successivo smistamento verso l’ospedale più
attrezzato ad affrontare la patologia.
Essendo una struttura mobile, come per altro indica il nome, che deve essere a disposizione in un breve lasso di tempo,
l’unità mobile di soccorso sanitario è un dispositivo che deve rispondere appieno ai quattro termini caratterizzanti
l’architettura mobile, cioè trasportabilità, trasformabiltà, flessibilità ed adattabilità.
Per prima cosa la struttura deve essere facilmente trasportabile in qualunque luogo; per questo nel progetto si è deciso di non
integrarla con il sistema di trasporto; si è optato per un sistema “demontable”/disassemblato, da montare direttamente sul
luogo, facendo particolarmente attenzione alla questione “peso” in modo da poterne garantire il trasporto anche con un
elicottero civile tramite gancio baricentrico. La scelta è quindi ricaduta su una struttura riconducibile alla tipologia della
tenda.
Questo ha reso necessaria una riflessione: se nelle altre tipologie il container o il mezzo furgonato vengono attentamente
allestiti per le immaginabili problematiche relative al limitato spazio a disposizione, nei sistemi a tenda la cura nell’introduzione
di facilitazioni per le operazioni di soccorso è sempre molto scarsa. La tenda ha sì una grande flessibilità di utilizzo, ma questo
alle volte diventa l’alibi per il non-progetto di questa caratteristica.
Le foto del PMA allestito in occasione di una manifestazione sportiva in provincia di Udine mostrano chiaramente come la non
predisposizione di una integrazione tra shelter e impiantistica porti a notevoli difficoltà operative.
Compito del progettista è quindi definire il limite tra le esigenze legate all’emergenza, quindi velocità di assemblaggio, e la
funzionalità dello spazio interno.
Non si può dimenticare comunque che le difficoltà create da una scarsa organizzazione interna ricadono drammaticamente
sull’operatività dei soccorritori, sia da un punto di vista strettamente materiale che emozionale.
Da ricordare che l’emergenza è una situazione di alto stress anche per coloro che la scelgono come scenario lavorativo; il
progettista dovrebbe considerare che altre fonti di stress, quali impedimenti riconducibili alla struttura, provocano scarsa
efficienza nei soccorsi.
Utilizzando le parole di Wright si potrebbe dire che questa tesi cerca di creare un’unità medica di soccorso sanitario
organicamente organizzata.
Lo scopo del progetto quindi è quello di garantire una struttura mobile con agevolazioni che facilitino le operazioni di soccorso,
evitando la confusione e rendendo autonoma la struttura per un certo periodo qualora la situazione lo imponesse (ad esempio
il prolungamento delle operazioni anche durante la notte in una zona difficilmente raggiungibile dai mezzi di terra).
Il sesto capitolo cerca quindi di essere la sintesi progettuale delle precedenti ricerche, seppur condotte in ambiti alle volte
molto distanti. L’approfondimento delle tematiche dell’architettura in movimento e dell’evoluzione della tenda ha permesso
di poter predisporre accorgimenti utili a limitare effetti di disagio e aumentare alcune prestazioni, come l’isolamento termico;
la ricerca nel campo degli shelter per l’emergenza ha permesso di avere una visione più ampia delle problematiche delle
persone in difficoltà, degli scenari con limitate agevolazioni e delle prescrizioni dettate da decenni di esperienza come quelli
accumulati dell’UNHCR; gli approfondimenti sulle tecnologie e sulle innovazioni nel campo dei materiali ha garantito l’utilizzo
di prodotti che garantiscono prestazioni di alto livello del sistema; infine la figura di Richard Buckminster Fuller ha aumentato
la curiosità per tutti quei settori che non sono strettamente architettonici ma che possono comunque essere d’ispirazione per
il progettista.
01
Numerosi architetti negli ultimi decenni si sono imbattuti in progetti che dovevano essere sviluppati in modo da poter far fronte
a vari tipi di emergenze. La maggior considerazione nella programmazione delle emergenze delle varie organizzazioni ha
fatto in modo che il fermento attorno a progetti di architettura mobile, temporanea e di emergenza riprendesse vigore dopo
le sperimentazioni del secolo scorso.
Ma cos’è una emergenza? E soprattutto quali sono i diversi approcci per l’emergenza nell’ambito architettonico?
Dal vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli:
Emergenza: circostanza o eventualità imprevista, specialmente pericolosa.
Quindi un’emergenza è un evento in genere imprevisto e pericoloso.
Nello specifico possiamo rifarci al Manuale per le Emergenze dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che,
sebbene sia stato redatto specificamente per le emergenze umanitarie, può essere d’aiuto nell’approfondimento.
Il manuale dice che nella definizione di un’emergenza “la distinzione si basa sulla gravità del fenomeno” che in questo caso
è “qualunque situazione in cui, in mancanza di un’azione immediata e appropriata, la vita o il benessere dei rifugiati possano
essere in pericolo, e che richiede una risposta straordinaria e misure eccezionali.”
Quindi si può dire che in generale l’emergenza è una circostanza straordinaria che necessita di una risposta eccezionale che
prevarica le capacità dei singoli, ma richiede la collaborazione di più persone e/o organizzazioni per risolverla nel più breve
tempo possibile.
Le emergenze che richiedono l’ausilio dell’architettura e che in parte verranno analizzate in questa tesi riguardano in genere
la possibilità di dare, entro un breve l’asso di tempo, riparo e assistenza a coloro che si trovano nello stato di emergenza.
Fortunatamente questa situazione è eccezionale, almeno nei Paesi industrializzati e che in genere tende a risolversi e a
lasciare il posto ad una condizione di normalità entro tempi brevi. Invece nei Paesi meno avvantaggiati lo stato di emergenza è
purtroppo molte volte la normalità. Basti pensare alle epidemie, alle carestie, allo spostamento di un gran numero di persone
che scappano da conflitti, agli eventi naturali non previsti e che colpiscono territori non attrezzati per affrontare tali situazioni,
ecc.
Negli ultimi anni, si sta cercando di prevedere e formulare protocolli sempre più precisi per affrontare queste situazioni,
soprattutto nei Paesi sviluppati e all’interno di tutte quelle organizzazioni che operano a stretto contatto con territori e
popolazioni svantaggiate. Purtroppo gli effetti di tali provvedimenti ha un riscontro diverso a seconda che vengano posti in
atto in territori dotati di infrastrutture o meno. Si pensi ad esempio ad un terremoto; nel caso questo colpisca una metropoli
l’obiettivo è cercare di porre in atto, nel minor tempo possibile, le attività di ricerca, soccorso e ricostruzione.
Questo è possibile perché da tempo si cerca di prevenire possibili cause di emergenza, si provvede a pianificare un iter di
operatività durante l’emergenza e soprattutto vi è un controllo e un’accessibilità al territorio e alle sue parti in genere buona.
In territori svantaggiati, di difficile accesso, l’obiettivo primario sarà invece quello di riuscire a raggiungere il luogo
dell’emergenza sempre nel minor tempo possibile, che però può significare giungere sul posto quando le attività di ricerca di
persone sopravvissute hanno minime possibilità di riuscita, in quanto, in genere, gli aiuti significativi provengono da nazioni
straniere. Per questo le attività saranno concentrate sul dare conforto ai sopravvissuti.
Se nel primo caso l’architettura ha avuto un ruolo nell’emergenza precedente all’evento stesso, con l’attuazione ad esempio
dei dispositivi quali il corretto dimensionamento antisismico degli edifici, nel secondo caso l’architettura ha un ruolo postumo,
cioè si occupa dell’assistenza attraverso shelter e della ricostruzione.
Ma come fare a mettere a fuoco realmente le esigenze a cui un progettista deve far fronte in una situazione di generale
emergenza?
Cameron Sinclair dello studio Architecture for Humanity rispondendo ad una intervista dice:

“In generale il primo accorgimento consiste nel coinvolgere il maggior numero di persone estranee al mondo dell’architettura:
medici, scienziati, professionisti, persone comuni. In questo modo si evita di appiattirsi sulle questioni di stile. I criteri variano
a seconda delle situazioni, ma oltre alle valutazioni tecnico-scientifiche assumono grande rilievo gli aspetti economici, e non
è detto che si debba a ogni costo risparmiare, perché può essere più interessante - per esempio - una soluzione che apra la
possibilità di generare profitti per la comunità.
Un singolo problema, come la scarsità d’acqua, può essere affrontato dal punto di vista del trasporto minuto, del filtraggio,
della raccolta, del riciclo, della questione igienica a seconda della convenienza rispetto al luogo: per ognuno di questi problemi
il design ha elaborato soluzioni ingegnose.”1

1   http://www.architectureforhumanityitaly.org/download/Il%20manifesto%2007.04.2007.pdf
Citando Enzo Mari possiamo infatti dire che il progettista si deve porre proprio in quella situazione tipica del design, cioè:

“il designer (qualunque sia la specifica tipologia d’intervento) deve necessariamente svolgere il proprio lavoro con la
consapevolezza dei due mondi: quello dell’utopia e quello del reale” 2,

definizione che funziona anche per il progetto per l’emergenza. Il progettista deve far in modo che tutto il suo bagaglio
culturale e architettonico (anche utopico) si metta in relazione con tutte le contingenze del reale, e specificamente con le
condizioni dettate da una situazione d’emergenza.
Sempre Mari :

“Questo gli consente, molto più che ad altri, di avvicinarsi alla comprensione di ciò che concretamente condiziona la nostra
modernità (per chi vuole anche «post»). Trasmettere in modo comprensibile la conoscenza di tali contraddizioni è oggi forse
il primo obiettivo del buon progetto.” 3

Similmente a Sinclair, anche Mari descrive come in quei progetti che prevedono una qualche complessità, devono essere
coinvolte, direttamente o indirettamente, più persone con ruoli e specializzazioni diverse.
Secondo il loro modo di porsi e interagire nella complessità del progetto ci possono essere due esiti: il primo favorevole, nel
momento in cui le diversità riescono a procedere le proprie ricerche e confrontarsi con gli altri inducendo momenti di dialogo;
il secondo sfavorevole, nel momento in cui ognuno procede separatamente riducendo lo scambio di informazioni al minimo.
Questa seconda situazione porta alla realizzazione di un progetto improprio 4.




  Enzo Mari. Schemi delle due modalità di interazione tra i partecipanti ad un progetto, il primo con esito favorevole, il secondo con esito sfavorevole.



A sostegno di questo vi è anche una caratteristica fondamentale che viene sottolineata dall’UNHCR che, anche se si
riferisce alla fase acuta della emergenza, può ritenersi valida anche per il progetto architettonico a sostegno dell’emergenza;
questa caratteristica è l’approccio multisettoriale. Inoltre è necessario un continuo riesame dell’efficacia della risposta e un
adeguamento nel momento in cui si riscontrino delle esigenze differenti.
La necessita della progettazione di shelter per far fronte alle emergenze è ribadita da Sinclar:

“Nessuno vuole investire nella prevenzione. Sono le grandi ondate emotive che seguono le catastrofi a mobilitare le energie,
il denaro, il potere necessario a fare partire le idee, e spesso neanche quelle sono sufficienti. Prendiamo il caso di New
Orleans: il rischio di inondazione era noto, e nonostante questo non si è voluto prevenirla. Il tasso di povertà degli abitanti era
inammissibile per una città degli Stati Uniti, nessuno si era reso conto di quanta gente potesse essere esposta alla rovina
totale dall’uragano Katrina.
Il risultato è noto: nessuno ha capito bene come reagire ed è stato uno sfacelo, uno spreco di risorse e vite umane.” 5




2-3 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino
4 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino
5 www.architectureforhumanityitaly.org/download/Il%20manifesto%2007.04.2007.pdf
La distruzione dell’uragano Katrina a New Orleans nell’agosto del 2005


La seconda guerra mondiale fu l’avvenimento che segnò un grande cambiamento all’interno della gestione delle emergenze:
la nascita delle NGO, nongovernmental organization, le organizzazioni non governative.
Con l’eccezione del Comitato Internazionale della Croce Rossa, che fu fondata negli anni 60 dell’’800 da Henri Dunant, la
gran parte delle organizzazioni e delle agenzie che sono attive tutt’oggi sono state fondate sulla base dell’esperienza dalla
seconda guerra mondiale.
Queste includono non solo le Nazioni Unite, ma anche altre agenzie governative come l’agenzia degli Stati Uniti per lo
Sviluppo Internazionale (USAID), organizzazioni di aiuto umanitario come l’International Rescue Committee, CARE, e l’Oxfam,
e organizzazioni religiose come Catholic Relief Services.
Da questo momento in poi, le organizzazioni non governative hanno giocato un ruolo fondamentale nel provvedere ai rifugi di
emergenza per i rifugiati o a sostegni dopo i disastri naturali.
Dopo la fine della guerra e la fine della colonizzazione, il problema delle emergenze, come già detto, si è spostato dall’Europa
e dall’America ai Paesi in via di sviluppo.
La Croce Rossa ha stimato che nelle passate due decadi, più di 75˙000 persone sono state uccise annualmente da disastri
naturali o prodotti dall’uomo, altri 211 milioni sono state interessate dai disastri ogni anno, 98% delle quali risiedevano in
Paesi in via di sviluppo. Inoltre si è visto come nell’ultimo decennio il numero di eventi calamitosi, e di conseguenza il numero
di persone coinvolte, sono in costante aumento.
Con l’aumento del numero delle NGO, queste hanno migliorato molto la parte dello sviluppo e della creazione di sistemi
sanitari e di approvvigionamento di acqua, e nella costruzione di abitazioni.
Solo negli ultimi anni però si è sottolineata l’importanza di associare all’intervento umanitario il rispetto per le realtà in cui si
interviene.
Questo aspetto va tenuto presente soprattutto dopo la fase della primissima emergenza, in cui bisogna ricostruire, dove
possibile, nel territorio colpito.
Ian Davis, consulente per i rifugi temporanei per le Nazioni Unite e che ha collaborato con Fred Cuny, uno dei primi ad
interessarsi negli anni ’70 alla pianificazione dei campi profughi e alle tematiche relative all’emergenza, misteriosamente
scomparso in Cecenia nel 1995 con due medici russi, sottolinea come

“When you told them (ai rifugiati) that you can build a permanent house in Bangladesh in three days for the same amount of
money they were proposing to spend on temporary housing, they igored you.”
Fred Cuny in Somalia nel 1992 accanto al veicolo dell’ONU danneggiato da un attacco armato a Mogadiscio. Tre anni dopo, all’età di 50 anni, Cuny
sarebbe sparito in Cecenia durante una missione di pace.

Il progettista quindi deve sempre relazionarsi con i parametri del luogo in cui andrà ad intervenire e non con quelli del suo
Paese d’origine. Il rischio è quello di creare una struttura totalmente inutile ed inefficace per affrontare l’emergenza. Tanto che
le tende – la soluzione scelta dalla gran parte delle agenzie – possono essere spedite a grande distanza a un costo accessibile
ma magari non vengono utilizzate perché arrivano troppo tardi o vengono montate in campi lontani dalle case e dai luoghi di
attività economica.
Nel 1977 si tentò di decodificare una linea di intervento comune a tutte le organizzazioni attraverso l’“International Conference
on Disaster Area Housing” a Istambul.

Si individuarono tre momenti per l’intervento del soccorso:
-emergenza: come immediato impatto con gli effetti del disastro e i relativi problemi abitativi in termini di riparo, di ricovero;
-riabilitazione: intermedia tra l’emergenza e la risistemazione definitiva, che viene individuata con la durata variabile da molte
settimane a mesi e anche anni, durante il quale “il massimo sforzo è rivolto a procurare un minimo di condizioni ambientali
per le attività umane e alla costruzione di abitazioni temporanee che devono durare fino a quando non siano terminate le
costruzioni a carattere permanente”;
-ricostruzione: il complesso dei provvedimenti legislativi, economico-finanziari e dei processi produttivi e costruttivi tesi ad
approntare le condizioni generali e a realizzare le operazioni per tornare alla normalizzazione della vita.

Da tutto ciò vengono dedotti alcuni fattori e requisiti caratterizzanti:
- adattabilità a qualsiasi tipo e condizione di terreno;
- accettabilità del comfort idro-termico ed acustico;
- compatibilità dimensionale dei componenti ai vincoli imposti dai mezzi di trasporti;
- massima leggerezza degli elementi e dell’insieme sia per ragioni economiche, sia per facilitare il trasporto, l’assemblaggio
  e garantire la massima sicurezza;
- massima riduzione di mano d’opera specializzata e minimo ricorso ad attrezzature speciali nell’assemblaggio dei
  componenti;
-potenzialità allo smontaggio e ri-montaggio in altro sito e per altre, analoghe, ricorrenza.


Alla conferenza di Istambul segue quella di Oxford organizzata da Ian Davis, “International Conference on Disasters and Small
Dwelling”, promossa dall’University College locale.
Il tema centrale è stato quello dello Shelter After Disaster, inteso nel senso di ricovero di primo soccorso e definito come
“accettabile protezione dagli elementi (freddo, caldo, vento, pioggia, ecc) dal momento del disastro fino alla disponibilità di un
ricovero temporaneo o permanente”.
Fasi di riabilitazione e ricostruzione di territori colpiti da calamità


Bisognerebbe tener comunque sempre conto di quelli che Enzo Mari indica come le qualità di un progetto6:
- la componente etica;
- la qualità culturale;
- il possesso degli strumenti di produzione;
- i tipi di coincidenza tra progetto e produzione.


Se solo dalla seconda metà dello scorso secolo si è cominciato a sottolineare la problematica progettuale di quelli che
vengono chiamati shelter, cioè rifugi, già da molto tempo prima, i progettisti hanno affrontato il tema dell’emergenza,
soprattutto sotto il profilo abitativo.
Facendo un salto nel tempo possiamo risalire forse al primo progetto che cercò di far fronte ad una emergenza tentando un
approccio di post-riscostruzione. Fu il caso di Lisbona, che nel 1755 venne colpita da un terremoto e successivo tsunami.
Con il progetto denominato gaiola (gabbia), si creò una struttura flessibile di legno formata da puntoni diagonali rinforzati e da
un reticolo di elementi sempre di legno verticali ed orizzontali, in modo da rendere in qualche modo “antisismici” i nuovi edifici
in previsione di un successivo terremoto.
Ma l’evento che forse decretò l’inizio delle strategie di intervento fu il terremoto del 18 aprile 1906 che devastò San Francisco.
Fu infatti l’evento catastrofico più imponente dell’epoca di prima industrializzazione.
In un primo momento la Croce Rossa, fondata solo 25 anni prima, quindi senza una significativa esperienza, e i volontari
fornirono prima delle tende ai sopravvissuti e successivamente alcune baracche che si rivelarono ben presto costose e
inefficaci. Si resero quindi conto che l’obiettivo doveva essere quello di ricostruire nel più breve tempo possibile la città per
riportare tutti alla normalità.
Per questo una combinazione di concessioni e prestiti ai più abbienti per l’edificazione di nuove case e la costruzione tra il
settembre 1906 e marzo 1907 di più di 5610 cottage progettati dagli ingegneri dell’esercito (tra i 13 e i 37 m2 e per un costo
variabile tra i 100 e i 741 dollari) di facile successiva dismissione, portò alla rapida normalizzazione.
Purtroppo a più di 100 anni di distanza, quello che oggi è una prassi della veloce ricostruzione nei Paesi industrializzati, per



6 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino
la gran parte del mondo è un traguardo ancora molto lontano.
Per decenni gli architetti hanno discusso sull’opportunità e la necessità di provvedere alla definizione di nuovi rifugi per far
fronte alle situazioni di crisi. Da quando i progettisti hanno confidato nell’idealismo dell’era delle macchine, nella crescente
ascesa del progresso tecnologico e nello sviluppo di idee a prima vista spesso utopiche, c’è stato uno sviluppo di soluzioni
e progetti per il supporto sia alla popolazione che agli operatori che devono far fronte alle problematiche delle situazioni di
crisi, come il provvedere a un riparo temporaneo, alla garanzia di acqua potabile, all’assistenza sanitaria alle famiglie che
necessitano.
Col tempo però, il mondo del soccorso e sviluppo post evento catastrofico si è separato dal mondo dell’architettura e del
design. Quello che i progettisti da sempre hanno considerato una sfida, i soccorritori invece lo considerano come un problema
di pianificazione e politica.
Questa disconnessione ha portato ad alcuni interrogativi, espressi anche da Kate Stohr nel saggio sui 100 anni di design
umanitario per il libro edito dallo studio newyorkese Architecture for Humanity 7, quali: che ruolo deve avere la
progettazione nella definizione e soddisfazione delle esigenze di un primo riparo? Come possono gli architetti indirizzare al
meglio la progettazione per soddisfare i bisogni della cittadinanza colpita? E, andando al cuore della questione, il design
deve essere considerato un bene di lusso o una necessità, un mezzo per il semplice godimento estetico o in prima istanza,
la soddisfazione primaria dei bisogni?
Questo problema ha da sempre interrogato non solo gli architetti ma anche i pianificatori, i politici e le organizzazioni di
soccorso , dibattendo per bilanciare il bisogno logistico di provvedere ad un riparo con il bisogno/desiderio dell’uomo di avere
un luogo da poter chiamare casa.




7 Architecture for Humanity, Design Like You Give a Damn, Architectural Responses to Humanitarian Crisis, Published by Metropolis Books, 2006, New York
La storia del design, inteso come progetto, umanitario/sociale ha le sue radici nei primi movimenti dei cittadini che tra il 1800
e il 1900 cominciarono a rivendicare e promuovere la riforma delle condizioni sociali e abitative delle fasce povere della
società. Parallelamente a progetti di architettura “convenzionale”, cominciavano a farsi largo anche tipologie di architettura
mobile.
Nel 1917 in varie località della Francia vennero erette delle case di legno completamente assemblabili a secco per dare un
primo rifugio stabile ai rifugiati della Prima Guerra Mondiale.
Le abitazioni, donate dall’ American Friends Service Committee, erano composte da due stanze.




Demontable Wooden House, 1917, Francia

Nel 1936 Wally Byam costruì la prima roulotte aerodinamica, la Durham Portable House, che costava tra i 1˙500 e i 3˙000
dollari, che non solo imitava la casa convenzionale, ma fu anche precursore del “double-wide”, cioè poteva essere trasportata
in due parti e assemblata in loco come singola abitazione (in genere hanno dimensioni che possono raggiungere i 9 metri di
larghezza e i 27 di lunghezza).
La casa mobile non fu il solo successo delle abitazioni prodotte per la grande massa in America prima della Seconda Guerra
Mondiale. Tra il 1908 e il 1940 il venditore americano Sears, Roebuck and Co. Vendette più di 100˙000 case dal proprio
catalogo. Le case venivano vendute in più di 30˙000 parti, complete di istruzioni di assemblaggio e due alberi per il giardino
e per un breve periodo queste case offrirono una valida alternativa alle costruzioni tradizionali. Le case potevano essere
acquistate a un prezzo che andava da 650 per le più piccole, da fino a 1˙000 dollari per le medie. In più la società garantiva
che “un uomo di medie capacità” poteva costruire con il kit a disposizione, la casa in soli 90 giorni” 8.




“The Winona”, Sears Modern Homes, Akron, Ohio, USA




8 www.searsarchives.com/homes/index.htm
In merito al MOMA di New York da luglio a ottobre (2008) vi è la mostra “Home Delivery: Fabricating the Modern Dwelling” che
ripercorre la prefabbricazione in ambito edilizio in America, nella quale vi sono alcuni esempi di case self-made per gli strati
della popolazione meno abbienti (www.momahomedelivery.org).
Nel continente africano, uno degli esempi più significativi di sperimentazione dello stile self-help housing, cioè dell’auto
costruzione, fu il lavoro di Hassan Fathy in Egitto. Nel 1930 Fathy iniziò a sperimentare le costruzioni fatte in mattoni di
fango.Dopo aver costruito alcune case di campagna con i tradizionali tetti a volta e i mattoni di fango, inclusa una sede
dimostrativa per la Mezza Luna Rossa in un villaggio distrutto da un’inondazione, fu chiamato dal Dipartimento delle Antichità
del suo paese per progettare e ricostruire un villaggio, il villaggio di Gourna.
Per Fathy la costruzione della nuova città, vicino ad un sito archeologico, fu l’opportunità per testare le sue idee di
un’architettura basata su sistemi a basso costo di costruzione e con tecniche sostenibili per il territorio, prese direttamente
dalle tecniche costruttive dei suoi avi. Anche perché i nuovi abitanti di Gourna non avrebbero potuto nemmeno permettersi le
tanto pubblicizzate case prefabbricate.
La costruzione si protrasse tra il 1946 e il 1953 ma non si ottenne il risultato sperato per l’incomprensione con gli abitanti che
si aspettavano di avere subito una casa completamente terminata, come fosse l’ennesimo prodotto.
Il problema del self-help housing è che si viene a negare il ruolo stesso dell’architetto, che è relegato al semplice ruolo di
insegnante delle tecniche costruttive.




Hassan Fathy, piano per il villaggio di New Gourna, Egitto, 1946



Allo stesso tempo un altro progetto più fortunato di quello di Fathy fu iniziato dal governo di Puerto Rico per ricostruire e
ridistribuire la terra. A 67˙000 lavoratori agricoli fu dato un piccolo appezzamento che comprendeva 3 acri. La costruzione
delle case iniziò nel 1949, e le famiglie furono organizzate, per tali lavori, in gruppi di 30 persone. Inoltre le famiglie erano
libere di decidere come progettare e costruire le proprie abitazioni utilizzando ogni metodo che potesse avere un senso, che
comprendesse un metodo costruttivo tradizionale o meno. Agli inizi degli anni ’60 erano già state costruite tra le 30˙000 e le
40˙000 piccole abitazioni.
Con la Seconda Guerra Mondiale per la prima volta nella storia il numero dei civili morti superò quello dei soldati, la distruzione
delle città e dei paesi non aveva precedenti e praticamente tutta l’Europa doveva essere ricostruita.
Da questo momento in poi l’attenzione dei progettisti si spostò sui rifugi di emergenza, i quali divennero la priorità per dare
un tetto ai milioni di sfollati.
L’architetto finlandese Alvar Aalto sviluppò un rifugio di emergenza temporaneo che poteva essere trasportato e utilizzato da
quattro famiglie con un sistema di riscaldamento centralizzato.




Transportable Primitive Shelter, Alvar Aalto, Helsinki, Finlandia, 1939-40 circa


Nell’ottica della ricerca di sistemi e processi idonei a soddisfare le esigenze dell’utenza sfollata ad avere spazi ridotti (quindi
poco costosi) ma sempre più dinamici e flessibili, in Francia Jean Prouvè propone soluzioni l’impiego di semilavorati industriali
per la produzione di costruzioni per l’emergenza. Tra queste le écoles volantes, scuole per bambini rifugiati, e il Pavillon 6x6.
Quest’ultima unità abitativa fu concepita per rispondere alle richieste di 450 abitazioni provvisorie avanzata dal Ministero
della Ricostruzione francese. La possibilità dell’assemblaggio da parte di pochi uomini e a secco permetteva che questi rifugi
fossero disponibili in breve tempo e senza aggiunta di altri materiali oltre quelli che uscivano dalla fabbrica produttrice.
La copertura si poggiava su puntoni in lamiera che costituivano la struttura principale e veniva successivamente
controsoffittata. Il pavimento era in legno, sollevato da terra e sostenuto da una intelaiatura metallica. Gli elementi di chiusura
verticale erano pannelli di legno con anima di alluminio.
La costruzione del Pavillon 6x6, Jean Prouvè, France, 1944


Interessante, anche sotto l’ottica della diversità culturale tra Europa ed America, è notare come nel continente americano tra
il 1940 e il 1945 circa otto milioni di persone hanno trovato un nuovo alloggio con il programma edilizio nazionale della
National Housing Agency che comprendeva varie tipologie quali: trailers, mobile houses, demountables, dormitories,
temporary houses, ecc.
E sono proprio gli Stati Uniti d’America i pionieri nella progettazione e creazioni di case o semplici “shelter” montabili in poco
tempo e trasportabili.
Le linee di ricerca principali erano due: quella di Richard Buckminster Fuller che utilizzava le industrie che si stavano via
via convertendo dalla produzione bellica e quella dalle varie agenzie per la casa che proponevano delle case facilmente
trasportabili generalmente di legno.
Nel secondo caso, identificato dall’alloggio unifamiliare in legno come la portable unit cottage della TVA, Tennessee
Valley Authority, la sperimentazione avveniva tutta in fabbrica e le fasi di montaggio che potevano essere più complicate per
l’acquirente venivano eseguite già in fase di produzione.




Airstream Clipper, Wally Byam, Los Angeles, California, USA, 1936, New Demountable Cottage,T.V.A. Tennessee Valley Authority, 1940


Walter Gropius, durante la sua esperienza ad Harvard intraprese una prestigiosa collaborazione con la General Panel
Corporation.
Insieme a Wachsmann condussero una formulazione più matura ed esaustiva del sistema strutturale prefabbricato.
La loro interpretazione delle strategie connesse con la prefabbricazione intendeva rispondere all’assemblaggio della struttura
tramite la connessione di parti a loro volta assemblate in fabbrica.
La ricerca svolgeva verso il superamento delle rigide schematizzazioni determinate dalla produzione industriale con la volontà
di giungere a combinazioni flessibili dei vari elementi costituenti l’alloggio garantendo flessibilità e modificabilità.
Scriveva Wachsmann: «Lo sviluppo del modulo degli elementi delle superfici universali viene determinato in sostanza da due
condizioni opposte. Mentre un elemento di costruzione dovrebbe venire dimensionato il più grande possibile, per avere un
minor numero di giunzioni, che sono pur sempre i punti più deboli, è necessario nello stesso tempo che esso sia il più
piccolo possibile, perché la sua maggiore o minore utilità dipende dalla sua capacità di adattamento in relazione ad infinite
combinazioni, sia al momento della progettazione che dell’applicazione».




Konrad Wachsmann e Walter Gropius in cantiere per il montaggio del Package House System. Sullo sfondo le pareti del sistema in fase di allestimento.


Nel 1945 negli Stati Uniti la US Federal Public Housing Autority preparò circa 30˙000 abitazioni temporanee prefabbricate
di prima emergenza da spedire in Gran Bretagna. Le piombature e i fissaggi venivano spediti assieme alla struttura, ma non
venivano forniti gli arredi interni.




Houses for Britain, 1945
Precedentemente è stata definita l’emergenza come una situazione eccezionale, con un livello di gravità che pregiudica il
normale funzionamento delle strutture come possono essere gli ospedali.
Se ci si trova in Paesi industrializzati sarà più semplice che l’emergenza duri un lasso di tempo inferiore rispetto a Paesi in via
di sviluppo e che abbia effetti meno significativi.
Ciò nonostante, nella ricerca condotta per questa tesi, si è visto come ad oggi, la maggior sperimentazione in ambito
architettonico riguardante situazioni di emergenza sia stata fatta attraverso concorsi che vedono come scenario principale
Paesi con un grado di infrastrutture e supporto logistico insufficiente, come i Paesi africani o del sud est asiatico.
Vi sono alcuni tentativi di inserire nell’ambito delle città occidentali l’architettura “d’emergenza”, cioè che risponde in maniera
rapida a situazioni precarie, ma i tentativi in genere si risolvono in installazioni temporanee.
Il concetto che lega l’architettura alle emergenze è quello di shelter, cioè di rifugio, che viene definito in “Tents, A Guide to
the use of family tents in humanitarian relief” edito dall’ Office for the Coordination of Humanitarian Affair delle Nazioni Unite
come “an habitable, covered living space”, ma viene anche specificato che non deve essere solo un tetto, un riparo, ma deve
contenere una serie di comfort, accessori e la possibilità di accedere facilmente ad alcuni servizi. Nel caso dei rifugiati questi
saranno ad esempio dei vestiti, delle coperte, delle stufe, cioè tutte quelle cose che una persona in fuga non può portare con
se.
Per uno shelter ad uso sanitario si dovranno predisporre tutte quelle facilitazioni che permettono un agile lavoro al personale
medico. Al progettista non spetta tanto la definizione esatta delle quantità degli accessori, bensì il pensare a tutte le possibili
attività che potrebbero svolgersi all’interno dello shelter, progettando delle soluzioni che permettano l’utilizzo dello spazio in
modo ottimale.
La guida delle Nazioni Unite dà poi delle indicazioni che possono sembrare banali ma che meritano di essere citate per iniziare
a comprendere le primarie necessità di cui bisogna tener presente nella progettazione di uno shelter.
Nel precedente paragrafo “Il ruolo dell’architetto nel progetto per le situazioni di emergenza” venivano specificate le
caratteristiche che deve garantire un rifugio, cioè mantenere in un buono stato di salute gli occupanti, garantirne una minima
sicurezza e un grado, anche se minimo, di dignità.




Campo profughi, Macedonia, maggio 1999
Nelle emergenze le tende, principale tipo di rifugio, utilizzato dalla maggior parte delle organizzazioni, soprattutto per la facilità
con cui possono essere spedite in tutto il mondo, avendo un facile stoccaggio, assicurano i precedenti fattori nel seguente
modo:
- salute: le tende proteggono dagli agenti climatici esterni (pioggia, neve, vento, polvere, sole);
- privacy e dignità: garantiscono un grado di privacy e un riparo dignitoso alle persone che hanno appena perso tutto;
- sicurezza: provvede a una sicurezza fisica, riducendo ad esempio il rischio di furti, e da una sensazione di protezione alle
             persone che vivono all’interno. I campi devono comunque avere altri sistemi di sicurezza.
- mezzo di sicurezza di supporto: la tenda permette alle persone di allontanarsi per prendere cibo e combustibile,
                                  mantenedo sotto controllo i figli e potendo così condurre altre attività essenziali.1




Campo profughi in Etiopia, febbraio 1985

In genere la costruzione di rifugi d’emergenza è strettamente dipendente dalle condizioni locali; ripari possono essere costruiti
con materiali provenenti da edifici danneggiati, o reperiti direttamente in loco, come teli di plastica, legno, corde,ecc.
La costruzione di rifugi con questi materiali può coinvolgere attivamente la popolazione, divenendo inoltre disponibili più
velocemente e ad un costo inferiore rispetto alle tende spedite dai Paesi soccorritori.
Teli di plastica, pali, corde in genere sono le prime cose ad essere distribuite dalle organizzazioni umanitarie, in modo tale da
evitare il disboscamento delle aree limitrofe all’accampamento e garantendo la costruzione di tali rifugi in tempi brevissimi.
Deve esserci però la capacità costruttiva delle persone coinvolte; bisogna tener presente che se ci si trova in climi estremi
queste soluzioni non sono però sufficientemente adeguate. Per questo a volte è preferibile costruire rifugi utilizzando le
tecnologie del luogo, in che modo possano essere costruiti in breve tempo e garantire un riparo più stabile e dignitoso.




Prime due foto: campo profughi di Mokindo, Rwanda, novembre1993; ultima foto: Campo profughi in Congo, dicembre 1995




1 Office for the Coordination of Humanitarian Affair, Tents, A Guide to the use of family tents in humanitarian relief, 2004, United Nations Publication
La costruzione di questo tipo di rifugi in alcuni casi può rivelarsi meno costosa del trasporto delle tende; sono inoltre più
appropriati culturalmente e migliori per quella che potrebbe essere una futura riconversione.
Per far fronte a emergenze umanitarie vengono anche fornite delle strutture a tunnel, che per disposizione dell’UNHCR sono
costituiti , per una struttura standard di 7x4m, da:
- 3x6m x tubi per l’acqua in Polietilene a media densità con diametro esterno di 63mm;
- 3x3,6m x 12mm di barre di metallo per l’irrigidimento orizzontale,
- 6x0,5m x 12mm di barre di metallo per il fissaggio,
- 1x7m x 4 m di telo di plastica per la copertura,
- 2x2m x 2m di telo di plastica per le porte,
- 32 m di corda.
Il vantaggio di queste strutture è che garantiscono un immediato supporto per i programmi sanitari e per
l’approvvigionamento dell’acqua, quindi in genere vengono utilizzate come supporto logistico.




Tende con struttura a tunnel, prescrizioni UNHCR




Tenda con struttura a tunnel della Croce Rossa
Nella progettazione degli shelter per le popolazioni in situazioni di crisi vi sono più approcci. In genere vi sono
 progetti che con un livello di tecnologia minimo garantiscono le prestazioni basilari e quelli che, aumentando via via l’apporto
tecnologico, cercano di creare un ambiente più stabile e duraturo nel tempo. Normalmente infatti le soluzioni di base, tipo le
tende, dovrebbero essere utilizzate per un tempo limitato, cioè solo nella prima fase dell’emergenza per poi lasciare posto a
soluzioni sempre più durature fino al ristabilimento della normalità, anche in ambito architettonico.
Purtroppo però i dati che ci provengono dalle organizzazioni umanitarie non sempre confermano questa evoluzione degli
eventi. Dati UNHCR riportano come la media della permanenza di un rifugiato in un campo profughi è passata dai 9 anni del
1993 ai 17 del 2003, e considerando che il 47% dei rifugiati ha età inferiore ai 18 anni si può facilmente capire l’effetto di
tali dati sulla società del paese colpito: mancanza di scolarizzazione, delle minime garanzie sanitarie, ecc.
Di seguito si presentano alcuni progetti che, con diversi gradi di complessità e tecnologia, possono far comprendere i diversi
approcci progettuali e come vengono risolte le varie problematiche relative agli shelter.




Location.................................................Varie
Data........................................................dal 2002
Organizzazione......................................UNHCR (Alto Commissariato per I Rifugiati delle Nazioni Unite)
Cliente finale..........................................Rifugiati
Consulente progettuale......................Ghassem Fardanesh
Produttore.............................................H. Sheikh Noor-ud-Din & Sons (Pvt.) Limited, Lahore, Pakistan
Costo per unità....................................≈ 100$
Area........................................................16,5 m2
Occupazione..........................................4-5 persone
Dimensione............................................5,5 x 3 x 2,1m
Peso........................................................41,5 kg




Nei Paesi colpiti dalla guerra o da disastri naturali la presenza delle tende dell’UNHCR è uno dei primi segnali di aiuto alla
popolazione. L’incarico dato ai progettisti era quello di ripensare la tenda base in dotazione all’organizzazione.
Nel tempo sono stati pensate e testate varie soluzioni, dalle strutture prefabbricate, ai container, alle tende di poliuretano, ma
nessuno di questi presidi ha dato un significativo sviluppo all’assistenza ai rifugiati.
Molte soluzioni hanno fallito perché semplicemente altri sistemi di riparo erano già disponibili al momento dell’emergenza e
il tempo per sviluppare soluzioni alternative non era sufficiente. Altre volte i progetti proposti non sembravano delle soluzioni
temporanee ma avevano carattere “permanente” rendendo da un lato di difficile accettazione il loro posizionamento in loco e
dall’altro più difficile il ritorno dei rifugiati alle loro case. In altri casi si sono rivelati troppo costosi o di difficile produzione in
serie.
Come già visto in genere la distribuzione dei teli di plastica può essere, a seconda della gravità della crisi, la prima soluzione
o l’unica perché è la più semplice per far fronte all’emergenza.
Comunque, nel caso in cui non potesse essere possibile reperire in loco materiali per costruire strutture più permanenti,
dove le famiglie non hanno possibilità di trovare accoglienza negli edifici comunitari, l’UNHCR provvede a fornire soluzioni più
durature, tipicamente una tenda rigida o una formata da doppio tessuto in tela. Però queste tende non sono resistenti, sono
ingombranti da trasportare e costose da spedire, si deteriorano facilmente e non possono essere stoccate per lungo tempo.
L’usura e gli strappi riducono ancora drasticamente la vita di queste tende.
Nel 2002 l’agenzia ha cominciato a testare nuove tende per le famiglie.
Le tende dovevano essere ben illuminate ed avere una vita più lunga di quelle precedenti.
La prima considerazione che è stata fatta fu quella di ridurne il volume, il peso e le dimensioni in quanto è più costoso spedirle
che produrle; parlando di quantità che vanno dalle 50˙000 alle 100˙000 tende il dato non è trascurabile.
Il risultato progettuale è stato un tunnel per la massimilizzazione degli spazi e la più ampia versatilità.
La produzione attuale prevede che il telo di copertura sia di materiale sintetico, di minor peso (da 110 kg a 41,4 kg) e con la
possibilità di stoccarle in grandi quantità,.
Un telo interno provvede all’isolamento del piano di calpestio e l’aria circola attraverso dei fori e finestre riparate con
zanzariere per non permettere la trasmissione della malaria.
Le corde esterne permettono sia l’ancoraggio che il corretto distanziamneto dalle altre tende.
Per garantire la privacy, cosa molto importante per la sicurezza di un campo profughi, soprattutto per evitare violenze su donne
e bambini o attriti tra gruppi, i progettisti hanno dotato ogni tenda di un tessuto che può ripartire lo spazio interno della tenda,
dove le donne possono cambiarsi e i genitori dormire separati dai figli.
La partizione può essere utilizzata anche per creare degli spazi semi- pubblici.
L’agenzia inizialmente ha prodotto 10˙000 unità e il nuovo prodotto è stato testato in Ciad (in risposta alla crisi del Darfur) e
nelle aree dell’Indonesia colpite dallo tsunami del dicembre 2004.




Trasporto e montaggio Lightweight Emergency Tent

                                              “In our business it’s really difficult to say,
                                    - I have something new, and let’s replace (the old version).-
                                  The tent we have now has been under surveillance for 20 years.
                                                       This is a newborn baby.”
                                        Ghassem Fardanesh, senior physical planner, UNHCR
In questo progetto è da notare come piccoli accorgimenti possono garantire un grado di comfort più elevato
anche se il rifugio è una struttura di per sé precaria. Far pronte alle più elementari esigenze dell’essere umano e
garantirne un senso di sicurezza in situazioni d’emergenza, fa si che i piccoli progetti possano avere successo.

È già stato citato il libro “Tents, A Guide to the use of family tents in humanitarian relief” dell’ Office for the Coordination
of Humanitarian Affair. Il libro deriva dall’esperienza di numerose organizzazioni quail OXFAM GB, CARE, CHF, UNHCR rac-
colte da Tom Corsellis del Martin Center for Architectural and Urban Studies dell’Università di Oxford, che insieme ad altri
collaboratori ha dato origine al progetto Shelterproject.




Data........................................................dal 1997
Progettista............................................Martin Center for Architectural and Urban Studies, University of Cambridge
Team di progetto.................................Joseph Ashmore, Dr. Tom Corsellis, Peter Manfield, Antonella Vitale
Partner di progetto.............................Oxfam, Gran Bretagna
Consulenti..............................................Consulenze da numerose organizzazioni umanitarie
Clienti finali.............................................Sfollati
Website.................................................www.shelterproject.org




Nel 1997 il Dr. Tom Corsellis, che aveva già lavorato con organizzazioni umanitarie quali CARE e UNHCR, insieme a un gruppo
di progettisti, cercò di ripensare il rifugio d’emergenza. Per anni il progetto delle tende per le emergenze si è focalizzato su
due problemi: il costo e la facilità di montaggio.
Molte tende venivano costruite con tessuto, che però è pesante e costoso da trasportare, facilmente deteriorabile e non può
essere lasciato in magazzini per lunghi periodi.
Inoltre le tende dovrebbero essere utilizzabili sia in climi rigidi che caldi. Altre volte vengono montate senza pensare a problemi
come il drenaggio dell’acqua, la resistenza al fuoco e altri fattori critici. Conseguentemente le tende sono state utilizzate con
vari gradi di successo a seconda degli scenari e dell’organizzazione dei campi.
Iniziata nel 1995 la collaborazione con OXFAM GB e grazie all’apporto dell’esperienza di altre organizzazioni, è stato possibile
per il team di progetto lo sviluppo di linee guida per le tende che sono state pubblicate nel libro “TENTS”, edito nel 2004.
Più recentemente il progetto di ricerca ha approfondito la tematica dell’organizzazione e pianificazione tra lavoro di primo
soccorso e la successiva programmazione dello sviluppo futuro della zona colpita.
Nel 2005 vennero pubblicate le linee guida per un miglior intervento “Transitional Settlements: Displaced Populations”.
Studio per la suddivisione in settori di un campo profughi




 test delle tende a Bamyan, Afghanistan, febbraio 2003




  test delle tende a Panjwai, Kandahar, febbraio 2003
Location.................................................Varie
Data........................................................dal 1983
Organizzazione......................................World Shelter
Consulente progettuale......................Steven Elias, Bruce LaBel
Partner di progetto.............................Buckminster Fuller Institute
Clienti finali.............................................Popolazione sfollata, campi per operazioni d’emergenza
Costo per unità....................................365$
Superficie...............................................25 m2
Dimensione...........................................7,4 x 3,4 x 2,6m
Dimensione imballaggio......................38 x 38 x152cm
Peso........................................................30 kg




Il progettista Bruce LaBel ha avuto il primo approccio con la progettazione in situazioni d’emergenza dopo il terremoto che nel
1976 ha colpito il Guatemala, poi nel 1977 ebbe modo di lavorare con Buckminster Fuller.
Poi lavorò per la The North Face, che fu la prima ditta ad utilizzare il concetto di Fuller sulla tensegrity nelle sue tende e
dove Bob Gillis con Bruce Hamilton svilupparono la prima tenda impacchettabile con asticelle flessibili che è la medesima
tecnologia che è stata utilizzate per il progetto del Shelter frame Kit.
Il progetto prevede la costruzione di una tenda attraverso l’utilizzo dei teli di plastica in dotazione all’organizzazione USAID
(United States Agency for International Development) e dei semplici tubi di PVC.
La struttura è derivata chiaramente dai progetti di Fuller e l’aggancio tra il telo di plastica e i tubi è garantito attraverso delle
clip inventate dal designer Robert Gillis chiamate GripCLips.
IL Q-shelter ha tutti i vantaggi relativi alla leggerezza, alla trasportabilità e al facile montaggio delle tende, ma ne eredita anche
gli svantaggi. La ventilazione è relegata alle aperture usate come ingresso, l’isolamento viene effettuato attraverso l’utilizzo di
un secondo telo, soluzioni che accoppiate aumentano la possibilità di avere la formazione di condensa interna.




Tenda medica allestita in Uganda, consegna di un Shelter Frame Kit a dei medici dello Sri Lanka colpiti dallo tsunami del 2004
Location.................................................Varie
Progettista............................................Robert Gillis
Produttore.............................................Shelter System
Costo......................................................8-10$ per il set da 4 elementi




Il progetto è una semplicissima soluzione per il fissaggio dei teli alle strutture delle tende. La clip è adatta per tutti i tipi di teli
e per i più utilizzati sistemi di fissaggio, quali fascette di plastica e metallo ma anche semplici cordini.
È composta da due elementi: il primo viene fissato alla struttura, mentre il secondo viene incastrato al primo dopo aver
posizionato il telo di plastica. La semplice rotazione del secondo elemento sul primo crea un incastro grazie al particolare
disegno delle due parti.




Una tenda fissata alla struttura con i GridClips
Ci sono invece dei progetti che mirano a garantire una più dignitosa vita alle popolazioni disagiate e che vogliono superare
le problematiche sia tecnologiche, come la ventilazione, ma anche sociali, come il fatto di vivere in un ambiente diverso dal
proprio abituale luogo domestico.
Ma questo spesso si scontra con la proibizione dei governi a costruire degli alloggi permanenti agli sfollati, sia perché essi si
trovano in territorio straniero, sia per la preoccupazione di una edilizia selvaggia.
Quindi il progettista si trova a dover mediare tra le esigenze delle vittime e le restrizioni burocratiche.
A questo proposito una soluzione interessante è il progetto Bold (Building Opportunities and Livelihoods in Darfur).




Location.................................................Darfur , Sudan
Data........................................................2004-05
Organizzazione.....................................CHF International
Progettista............................................Scott Mulrooney, Isacc Boyd
Consulente progettuale......................Richard Hill
Maggior finanziatore...........................USAID
Clienti finali............................................Popolazione sfollata
Costo per unità....................................90$
Superficie...............................................6,5m2




Il progetto prevede la creazione di shelter che usino le tecniche costruttive tradizionali e dalla forma tipica delle rakubas, cioè
le tipiche costruzioni in bamboo del Sudan.
Le costruzioni hanno infatti una struttura di bamboo che è tenuta insieme attraverso pneumatici e corde di materiale riciclato
ed è ricoperta dai tipici tessuti in fibra vegetale.




Le abitazioni “Bold” montate e utilizzate dai rifugiati
Location.................................................Grenada
Data.......................................................1995 - 2005
Progettista............................................Ferrara Design Inc.
Team di progetto.................................Daniel A. Ferrara, Jr., Mya Y. Ferrara
Consulente per i materiali..................Ferrara Design Inc., Weyerhaeuser, Inc.
Produttore.............................................Weyerhaeuser, Inc.
Maggior finanziatore...........................Architecture for Humanity, Weyerhaeuser, Inc., Ed Plant, e altre donazioni private
Clienti finali............................................Popolazione sfollata
Costo per unità....................................400$
Durata del prodotto............................8-12 mesi




Il team di progetto formato da padre e figlia e arrivata al progetto dell’elegante, semplice, relativamente a basso costo, rifugo
dopo aver sperimentato più di 100 differenti configurazioni.
Fatto con cartone laminato corrugato, il rifugio può essere montato in meno di un’ora da due persone usando solamente un
set di informazioni per il montaggio.
Il cartone ha la funzione di irrobustire, dare privacy e permettere un facile trasporto del rifugio.
Solamente tre ditte che trattavano il cartone erano disponibili per la realizzazione, ma solo la Weyerhaeuser, Inc. era in grado
di trattare lastre di cartone corrugato così grandi da permettere la realizzazione completa del rifugio.
Lavorando con la stessa ditta la prima idea venne perfezionata riuscendo a fornire un miglior isolamento e una resistenza
maggiore all’acqua. Si decise di impregnare il cartone con un prodotto ritardante la combustione e dotando la porta d’accesso
di una chiusura meccanica per garantire la sicurezza degli occupanti.
Purtroppo, come ogni struttura trasportabile e temporanea i costi per le spedizioni sono molto maggiori rispetto ai costi della
produzione. La Weyerhaeuser, Inc. ha stimato che 88 unità possono essere stivate in un container standard da spedizione, in
rapporto a 500-1000 tende.
Un campo di prova fu l’isola Grenada, in cui un uragano aveva pressoché distrutto l’85% delle abitazioni.
Furono montati 70 rifugi distribuiti nelle aree rurali per essere utilizzate come abitazioni transitorie e cliniche ambulatorie.
I rifugi sono stati appositamente studiati per durare poco tempo, anche su suggerimento delle Nazioni Unite, in quanto
strutture troppo resistenti possono successivamente ritardare il rientro della popolazione nelle loro case e creare situazioni di
nuova povertà.




Montaggio e moduli assemblati
Global Village Shelter, istruzioni di montaggio


Lo studio Ferrara Design Inc., come tutti i progettisti che si trovano a lavorare sull’architettura per l’emergenza, sono
consapevoli del fatto che progettare un nuovo rifugio che possa competere con la tenda è un’operazione quasi impossibile.
Le persone che si trovano in situazioni critiche difficilmente accettano drastici cambiamenti. Per loro è difficile anche pensare
ad una spesa maggiore per un riparo quando ogni centesimo è fondamentale per la sopravvivenza.
È per questo che molte soluzioni rimangono solo dei progetti, come il caso di 139 Shelter e Concrete Canvas.




Location.................................................Etiopia
Data.......................................................1989, ma mai costruito
Progettista............................................Future System
Team di progetto.................................Jan Kaplicky, David Nixon
Consulente strutturale.......................Atelier 1
Ingegneria meccanica.........................ARUP (Ove Arup & Partners)
Maggior finanziatore...........................Architecture for Humanity, Weyerhaeuser, Inc., Ed Plant, e altre donazioni private
Persone coinvolte................................200
Persone per l’assemblaggio..............12 persone in 30 minuti
Dimensioni.............................................500m2
Costo per unità....................................30˙000$




Furono le immagini della popolazione etiope affamata e che assaliva i centri di distribuzione del cibo nel 1985 che spinse Jan
Kaplicky e David Nixon a progettare 139 Shelter. Voleva essere un riparo per la popolazione che dal nord del paese andava
verso sud. Il rifugio può ospitare fino a 200 persone, può essere facilmente trasportato con un aereo cargo e poi agganciato
a un camion o paracadutato. Una volta in sito necessita di 12 persone per essere assemblato.
La forma è ad ombrello ed ancorata al terreno con sacchi di sabbia. La copertura di Pvc, riflettendo più dell’80% del calore
solare, garantisce un’efficace zona d’ombra durante il giorno ed un efficace riparo durante le notti più fredde.
La ventilazione è garantita da una ventola centrale.
Metodi di trasporto




                      Meccanismo di apertura




                      Sistema di ventilazione
Data.......................................................2003-2004
Team di progetto................................Peter Brewin, William Crawford
Dimensioni............................................16m2 - 230 kg
Costo per unità...................................2˙000$ (prototipo)
Website.................................................www.concretecanvas.org.uk




Inventato da Peter Brewin, William Crawford, ingegneria al Royal College of Art, “Concrete Canvas” è un “edificio in una
sacca”. Gonfiata la sacca, 12 ore dopo il rifugio è pronto per essere utilizzato.
Entrambe i progettisti hanno avuto precedenti esperienze militari prima di iscriversi al Royal College e sono convinti che
questa soluzione potrebbe essere utilizzata in scenari di crisi, per cliniche mobili in situazioni di emergenza medica o come
luogo per stoccare cibo e materiale.
Il funzionamento è il seguente: si prende la sacca di tessuto impregnato di cemento e la si riempie di acqua (la dimensione
della sacca controlla la giusta quantità che deve essere usata, eliminando quella in eccesso).Si lascia in posa per 15 minuti
in modo che il cemento si reidrati ed una matrice di fibre tessili insieme ad un agente legante acqua-assorbente, producono
una reazione chimica che miscela il cemento.
Poi, si apre la struttura, che viene gonfiata come un materassino ad aria attraverso un pacchetto chimico che rilascia un
volume controllato di gas. Una volta gonfiata la si lascia in posa finchè non indurisce e successivamente si tagliano le porte e
i fori per la ventilazione. Infine si lascia che la struttura indurisca per tutta notte.
Il risultato è una sottile struttura in calcestruzzo di 16 m2. Una fodera aderente all’interno di plastica provvede a creare un
ambiente sterile impermeabilizzato.
Sebbene l’idea di poter avere un rifugio resistente che può essere riposto in uno zaino è ottima, il peso e la necessità di
avere a disposizione una grande quantità di acqua, fa si che questa idea debba essere maggiormente sviluppata e non sia
immediatamente utilizzabile in scenari di crisi in corso in Paesi non industrializzati.




Montaggio con relativa tempistica; posizionamento, idratazione, gonfiaggio, finiture




Due elementi montati e interno del Concrete Canvas
Uno dei problemi principali nella creazione degli shelter è il reperimento dei materiali che magari si pensa di trovare in
loco. Nel progetto precedente la disponibilità d’acqua veniva data per scontata, senza tener conto che in una situazione di
emergenza questa può scarseggiare, sia perché il luogo può esserne privo (Paesi in via di sviluppo) sia perché le infrastrutture,
quali le tubature o le strade che potrebbero essere utilizzate da mezzi con cisterne, potrebbero essere danneggiate (Paesi
sviluppati). Naturalmente se si dispone di un apparato di tipo militare questi problemi possono essere superati in tempi brevi
grazie allo spiegamento di mezzi, ma ciò non può essere garantito se ci si trova ad agire in campo civile.
Il reperimento del materiale in loco è comunque un problema tenuto in grande considerazione dalle agenzie dell’ONU. Infatti
il ricorso senza controllo a materiale da costruzione locale per far fronte alla prima emergenza può provocare successivi gravi
danni nella gestione della crisi. Il disboscamento di ampie zone per reperire legname per la costruzione provoca la distruzione
della vegetazione e di conseguenza anche la mancanza di zone ombreggiate, l’evaporazione dell’acqua e la sua dispersione.
Da queste considerazioni nacque la collaborazione tra l’architetto Shigeru Ban e l’UNHCR.




Location.................................................Byumba Refugee Camp, Rwanda
Data.......................................................1999
Progettista............................................Shigeru Ban
Progetto e prototipo...........................Primavera 1995 – luglio 1996
Costruzione e montaggio...................Febbraio – Settembre 1999
Committente........................................UNHCR
Cliente finale.........................................Rifugiati ruandesi
Finanziatore..........................................UNHCR




Un tipico campo profughi e un campo attrezzato con gli shelter progettati da Shigeru Ban

Nel 1995 Shigeru Ban fu chiamato dall’ UNHCR per progettare delle dimore temporanee per più di 2 milioni di ruandesi che
scappavano dal genocidio in corso per trovare rifugio in Tanzania e Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo).
Il progetto nella sua forma finale arrivò dopo una serie di ipotesi sui possibili materiali utilizzabili (bamboo, alluminio,
plastica e tubi di cartone). Numerosi fattori portarono alla scelta finale dei tubi di cartone. In primo luogo il grave problema
della deforestazione per la richiesta di legname da parte dei rifugiati per la stessa costruzione di ripari improvvisati. In secondo
luogo i tubi di cartone sono poco costosi e di facile trasporto. Infine era anche possibile produrre gli stessi in loco, riducendo
così le spese di spedizione, il tempo di attesa e gli scarti di lavorazione.
La costruzione di tre prototipi, avvenne nella primavera del 1995. Questi rifugi, che venivano coperti da teli di plastica di 4 x
6 m e garantivano la copertura di 16 m2, furono costruiti in collaborazione con Vitra e testati per garantirne la manutenzione,
i bassi costi di produzione e la resistenza termica.
La prima tipologia venne costruita come una semplice tenda a forma triangolare con un tubo di cartone posto in
corrispondenza della fine di ogni timpano e delle corde a garantire la giusta tensione.
La seconda fu costruita come un rifugio assimetrico che permette un utilizzo più funzionale dello spazio interno rispetto al
primo modello. I tubi di catone creano una forma a V in corrispondenza di ogni fine timpano e le corde permettono di mettere
in tensione la struttura.
L’ultimo prototipo, più grande e con 3 fogli di plastica (uno grande e due più piccoli) può essere connesso ad altri moduli
dello stesso modello alla fine dei timpani. Questo modello permette un’area coperta maggiormente utilizzabile, rendendola
disponibile per piccole cliniche o altri servizi.
I tre prototipi proposti

Il terzo fu il prototipo scelto per essere utilizzato dall’UNHCR. Dopo vari test da Vitra, il rifugio fu trasferito nel Luglio 1996 nel
giardino delle nazioni Unite a Ginevra per la presentazione finale all’ UNHCR.
Nella seconda fase di progettazione fu esplorata la possibilità della produzione in loco. Nel febbraio 1997, specialisti della
Sonoco, fabbrica di tubi di cartone, sono andati al centro logistico di Medici Senza Frontiere a Bordeaux in Francia portandosi
un macchinario e il materiale per la produzione dei tubi, volendo dimostrare la flessibilità della produzione anche in larga
quantità nei luoghi delle emergenze. Per Ban la fase finale del progetto, nel 1999, è stata quella del monitoraggio
delle costruzione di 50 rifugi.
L’evento che fece capire la necessità della costruzione di abitazioni più stabili per le persone che improvvisamente non
avevano più la propria casa, fu il terremoto che colpì il Giappone, in special modo la città di Kobe, nel 1995.
Infatti in quel caso Ban potè affrontare e testare in tempo reale i suoi progetti.
La prima soluzione fu quella di spostare le residenze temporanee fuori dal centro cittadino, ma fu subito chiaro che i campi
provvisori allestiti in centro città continuavano a persistere perché vicini ai luoghi di lavoro.
Quindi Ban con i suoi studenti costruirono le prime 21 case in tubi di cartone (Paper Long House) vicino ai maggiori centri di
produzione. Queste case vennero poi migliorate con l’esperienza del terremoto del 1999 in Turchia e del 2001 in India.




Pagine dall’allegato D, procedure di assemblaggio dal manuale edito per i Paper Tube Shelter
Pagine dall’allegato D, procedure di assemblaggio dal manuale edito per i Paper Tube Shelter




Allestimento dei Paper Tube Shelter nel campo profughi di Byumba in Ruanda, 1995-1999
Il problema ambientale durante le fasi di emergenza è sempre più tenuto in considerazione. Infatti la scarsa attenzione a tale
tema durante la fase pianificatrice degli interventi e durante gli stessi può provocare, come per altro già detto, delle situazioni
critiche nell’immediato futuro. Così, come Shigeru Ban nelle sue Paper House, sempre più progetti mirano alla salvaguardia
ambientale anche attraverso la corretta progettazione di shelter e costruzioni permanenti.




Location................................................Tilona, Rajasthan, India
Data.......................................................1986-89
Progettista capo.................................Bunker Roy
Team di progetto................................Bhanwar Jat, Neehar Rain e Barefoot Architects, strutture geodetiche di Rafeek
                                                           Mohammed e Barefoot Architects.
Costruttori...........................................Bhanwar Jat con abitanti del posto
Clienti finali...........................................Abitanti di Tilona
Maggior finanziatore..........................Social Work e Research Center, Governo indiano, Nazioni Unite, German Argo Action,
                                                          HIVOS- Humanist Institute for Development Cooperation, Plan Internazional
Costo.....................................................21˙430$
Superficie..............................................2800 m2 (sito 35000 m2)




All’interno della costruzione del Barefoot Colege a Tilona, nella regione del Rajasthan, in India, gli architetti impegnati nella sua
costruzione hanno utilizzato le cupole geodetiche ideate da Buckminster Fuller come elemento integrante di una architettura
sostenibile. Infatti il problema della deforestazione in questa regione dell’India è urgente ed allarmante a causa del taglio
indiscriminato del legname per la costruzione delle tipiche case.
Rafeek Mohammed e sette altri architetti del programma hanno costruito le cupole con materiali di scarto dell’agricoltura,
inclusi i pezzi non più utilizzati dei carri e alcune sezioni delle pompe. Le hanno poi ricoperte con paglia, conferendo così
un aspetto tradizionale a queste nuove costruzioni. Le strutture geodetiche sono tutt’ora utilizzate come laboratori medici,
dispense, ufficio postale e internet caffè.
Ci sono poi progetti che nascono specificatamente per essere utilizzati nell’ambito delle grandi metropoli, per dar modo alle
persone meno abbienti di aver a disposizione un luogo da chiamare casa, un luogo i cui rifugiarsi, anche se non rispecchia
l’idea tradizionale di “domesticità”. Sono progetti che si confrontano strettamente con il concetto di existens minimum e che
alle volte, come si potrà vedere successivamente, arrivano a confondersi con la performance artistica, con la sola differenza
che il performer, in questo caso, è una persona in evidente stato di emergenza abitativa.




Location................................................Los Angeles, California, USA
Data.......................................................dal 1993
Concept................................................Ted Hayes, Craig Chamberlain
Progettista...........................................Craig Chamberlain
Organizzazione....................................Justiceville, Usa
Cliente finale........................................Senzatetto
Maggior finanziatore..........................IARCO Corporation
Costo totale.........................................250˙000$
Costo per unità..................................10˙000$
Area per unità.....................................29 m2




Il Dome Village consiste in 20 sfere ognuna di 6,1m di diametro e alta 3,6m con una superficie di 29 m2 .
Ogni sfera è formata da 21 pannelli di fibra di vetro e poliestere poi uniti con 150 bulloni di Teflon, rendendo la struttura
impermeabile. In meno di 4 ore, due persone possono assemblare una Omni-Sphere usando una scala, un cacciavite e una
chiave inglese. È stato progettato per offrire un riparo stabile ai senzatetto e cercare così di ridare una prospettiva di vita alle
persone che non posseggono nulla.




L’interno di una Dome
Per finire questa rassegna di progetti sviluppati per far fronte a situazioni di emergenza si segnalano alcuni progetti che non
riguardano strettamente il campo architettonico, ma sono forse più vicini al mondo del design. Questo per dimostrare come il
processo della progettazione, che si tratti di un rifugio, di una casa o di un semplice recipiente richiede lo stesso iter, cioè una
fase di individuazione delle problematiche, lo stato delle condizioni in cui dovrà inserirsi il progetto, l’utilità e la fattibilità,ecc.
Ancora una volta si può vedere come soluzioni low-tech possono convivere con tecnologie hig-tech e che le une non
escludono le altre. Si tratta solamente di vedere in che modo si può dare risposta nel modo ottimale alle richieste che vengono
fatte al progettista.




Location................................................New York, Baltimora, Boston, Cambridge
Data.......................................................dal 1998
Progettista...........................................Michael Rakowitz
Consulenti............................................vari senzatetto
Cliente finale........................................senzatetto
Finanziatore.........................................autofinanziato
Costo totale.........................................5$
Website................................................www.michaelrakowitz.com




paraSITE è un rifugio temporaneo per persone che vivono in strada. Il riparo è un elemento gonfiabile costruito da due fogli di
plastica e un nastro (materiali facilmente reperibili dai senzatetto).
Una serie di tubi vuoti interconnessi creano una struttura che ha come parte finale un singolo tubo.
Per gonfiare la struttura bisogna connettere la parte finale agli sfiatatoi degli impianti di ventilazione degli edifici. Il calore
attraversa i tubi e gonfia la doppia membrana strutturale, creando istantaneamente un riparo caldo. Al mattino il riparo può
essere semplicemente ripiegato e riposto in una borsa facilmente trasportabile.
Rakowitz ha costruito il primo prototipo nel 1997 a Cambridge, nel Massachussetts, per un senzatetto di nome Bill Stone. Da
quel giorno ha costruito 30 prototipi di paraSITE, ognuno personalizzato per ogni utilizzatore finale.
Un altro lato di questo progetto è il fatto che, dovendosi attaccare ai sistemi di ventilazione degli edifici, paraSITE diventa un
elemento visibile e che denuncia agli abitanti più benestanti il dilagare del problema delle persone che non hanno più una
casa, problema in aumento negli Stati Uniti d’America.




paraSiITE può essere trasportato dai senzatetto in una borsa e all’occorrenza posizionato alle prese d’aria, fatto che attira l’attenzione dei passanti
Location................................................Sud Africa
Data.......................................................dal 1993
Progettista...........................................Grant Gibbs
Team di progetto................................Pettie Petzer, Johan Jonker
Produttore...........................................Imvubu Projects
Consulenti esterni..............................Robin Drake, Piet Hickley
Maggior finanziatore..........................Africa Foundation
Costo per unità...................................circa 75$
Website................................................www.hipporoller.org




Il progetto Hippo Water Roller ha permesso a migliaia di donne e bambini di poter trasportare l’acqua necessaria al
sostentamento giornaliero delle famiglie senza doversi caricare sulle spalle innumerevoli quantità d’acqua in recipienti in
genere contenenti 20 litri.
L’idea principale del progetto è stata quella di non dover per forza caricare l’acqua sulle spalle, ma semplicemente farla
rotolare all’interno di un contenitore in polietilene cilindrico di 90 litri. Il sistema permette alle persone di trasportare molta più
acqua e un notevole risparmio di tempo; inoltre il peso percepito facendo rotolare il contenitore è di 10 kg contro i 90 kg che
si avrebbero se l’acqua venisse trasportata con i tradizionali metodi, con un notevole vantaggio per la salute delle persone che
trasportano i contenitori e della famiglia che può avere a disposizione più acqua per cucinare e per la propria igiene.




L’Hippo roller in una foto da catalogo
REPORT




Shigeru Ban ha costruito la sua prima struttura in paper-tube nel 1989, chiamata Paper Arbor (un padiglione per il
World Design Expo a Nagoya in Giappone) ed ha continuato la ricerca raggiungendo espressioni formali di alto livello, come
dimostrano le esperienze del Japan Pavilion per l’Expo di Hannover del 2000 e il Paper Arch del museo di arte moderna di
New York.
Nell’analisi di questi edifici si potrà facilmente capire come l’innovazione all’interno dell’architettura può percorrere due
strade, come per altro già anticipato precedentemente: quella che vede un apporto di innovazione relativamente basso,
low technologies, cioè tecnologie desunte dall’esperienza e in genere a basso costo; e quella della high technologies, cioè
tecnologie ad alto contenuto di innovazione, in genere derivati da settori in cui gli investimenti nella ricerca sono significativi,
come quello aerospaziale o dei trasporti.
Nel capitolo riguardante le soluzioni tecnologiche utilizzate nelle architetture mobili si avrà modo di approfondire tale tema, ma
è necessario, per comprendere il lavoro di Ban con i paper-tube, “dire che i termini e i concetti «avanguardia» e «tradizione»,
applicati alla civiltà orientale, non hanno significato, o meglio, hanno significato solo se li si intende come concetti e termini
opposti: in tale civiltà, infatti, essi vanno intesi come sinonimi di «innovazione» e di «stabilità» in una relazione reciproca di
dipendenza.” 1
“In campo architettonico tale approccio trova esempi significativi nelle esperienze di Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Shigeru Ban,
le cui opere danno continuità alla cultura giapponese pur impiegando un linguaggio architettonico e tecniche costruttive tese
alla ricerca del nuovo.” 2
Ban è un esempio di progettista che sa muoversi tra soluzioni progettuali che percorrono la strada dell’ high-tech, come nel
caso della Neked House, e soluzioni che invece privilegiano il low-tech, come le abitazioni Paper Log House.
In un’intervista della rivista Detail, Ban ha detto “Cerco sempre di lanciare nuove idee, ma non ho «inventato» nulla; utilizzo
materiali standard, solo in modo nuovo”.




Dai dati tecnici reperibili sulle strutture in paper-tube, per le Paper House si nota come c’è stata una grossa fase di verifica
delle proprietà meccaniche della nuova struttura che si è svolta tra il 14 ottobre e il 20 novembre 1991, nel dipartimento di
Scienze e Ingegneria della Scuola di Architettura a Tokyo.
Nel caso in esame i tubi di cartone sono utilizzati come delle vere colonne. Lo scopo di una parte degli esperimenti era quello
di indagare la risposta, entro tempi brevi, del papaer-tube attraverso un test a piegatura (bendino test), a compressione e a
taglio. I tubi utilizzati avevano diametro esterno di 280mm e quello interno di 250mm.

1 G. Pasqualotto, Yohaku, Forme di ascesi nell’esperienza estetica orientale, Esedra, 2001, Padova in Nicola Sinopoli, Valeria Tatano, a cura di, Sulle tracce dell’innovazione.
Tra tecniche e architettura, Angeli, 2002, Milano.
2 Nicola Sinopoli, Valeria Tatano, a cura di, Sulle tracce dell’innovazione. Tra tecniche e architettura, Angeli, 2002, Milano.
REPORT




                            “The average compressive strenght of paper tube was 113.9 kgf/cm2”

                         “The bending strenght is more than 1.42 times the compressive strength”

                                        “The single shear strength was 581 kgf per lag screw”3




     A Kobe, a Kaynasli e a Bhuj le Paper Log House vennero costruite per dare un riparo alle         Location: Nagata, Kobe, Giappone
                                                                                                      Data: settembre 1995
     migliaia di persone sfollate dopo i violenti terremoti che avevano colpito tali città.           Ing. strutturali: Minoru Tezuka, TSP
     Le Log House, di 4m2, erano costruite con travi di cartone e con muri fatti di tubi dal          Taiyo
     diametro di 108mm e spessi 4mm.
                                                                                                      Location: Kaynasli, Turchia
     La base fu costruita con casse di birra collegate con sacchi di sabbia. Il soffitto e il tetto,   Data: Gennaio 2000
     ognuno dei quali rivestito con una membrana di PVC, furono separati per permettere la            Arch. associati: Mine Hashas, Hayim
     circolazione dell’aria, mantenendo fresco l’interno d’estate con l’apertura del timpano e        Beraha, Okan Bayikk
     invece lasciandolo caldo in inverno attraverso la sua chiusura.                                  Location: Bhuj, India
     Quando le famiglie numerose necessitavano di avere due unità collegate si creava                 Data: Settembre 2001
     un’area comune tra le due parti in cui i tetti venivano collegati.                               Ing. strutturali: Kartikeya Shodhan
     Per ogni casa era necessario disporre di 10 operai, incluso il capomastro.                       Associates
     Le prime 6 case si poterono costruire in sole otto ore e, di seguito, ne vennero costruite
     21 nel giro di un mese al costo di 250˙000 yen l’una (1˙500 euro circa). Queste case
     erano meno costose e più facili da montare rispetto alle tradizionali case prefabbricate e
     il fatto di essere facilmente riciclabili contribuì al successo del progetto.
     In Turchia le case vennero costruite invece con una dimensione di 18m2, fatto dovuto
     alla dimensione di produzione del compensato nel Paese. Inoltre le case vennero meglio
     isolate attraverso l’inserimento di carta da scarto all’interno dei tubi lungo le pareti e
     l’utilizzo di fibra di vetro nel soffitto.
     Nel caso indiano invece, vi furono problemi nel reperimento di alcuni materiali come
     le casse di birra da utilizzare per la base. Per questo si decise di utilizzare il pietrisco
     ricavato dalle macerie degli edifici distrutti per poi costruirci sopra un pavimento in fan-
     go, tipico della tradizione costruttiva locale come la stuoia tessuta con canne la quale,
     accoppiata con un mantello di plastica chiara cerato proteggeva l’interno dalla pioggia.
     La ventilazione veniva garantita attraverso dei fori nella stuoia del frontone caratteristica
     che diede la possibilità alle donne di cucinare all’interno della casa, evitando il fastidioso
     problema delle zanzare.
     Quindi si può notare come la tecnologia dei peper-tube e del loro assemblaggio è stata
     mutuata a seconda delle esigenze e delle caratteristiche costruttive del luogo.




                                                                                                      Kobe, shelter allestiti prima dell’arrivo
                                                                                                      delle Paper Log House; Paper Log House
                                                                                                      e montaggio.




     3 Matilda McQuaid, Shigeru Ban, Phaidon Press, 2003, Londra
REPORT




Paper Log House, Kobe, Giappone, 1995: esploso assonometrico; interno.




Paper Log House, Kaynasli, Turchia, 1999: fasi della costruzione.




Paper Log House, Bhuj, India, 2001: esploso assonometrico; interno di una Log House usata come scuola; interno.
REPORT




     La costruzione della Paper Church fu fatta accanto alle macerie della chiesa di Takatori a                 Location: Nagata e Kobe, Giappone
     Kobe. La comunità era per la maggior parte composta da rifugiati vietnamiti le cui case                    Data: settembre 1995
                                                                                                                Ing. strutturali: Minoru Tezuka, TSP
     furono a loro volta rase al suolo dal terremoto che ha colpito la città nel 1995. la pianta                Taiyo
     rettangolare di 10x15m ha una pelle di rivestimento in pannelli di policarbonato. La parte
     frontale e metà di ogni lato laterale può essere aperto, facilitando la ventilazione interna
     e permettendo, in caso di necessità, la partecipazione ai riti anche a numerose persone
     che altrimenti non avrebbero potuto entrare nella chiesa.
     Lo spazio interno è reso dinamico dalla disposizione ovale dei 58 paper-tube di 5m di
     altezza, con diametro di 33cm e 15cm di spessore, e può contenere 80 persone.


                                                                                                                Paper Church: montaggio




     Paper Church: interni; esploso assonometrico; particolare del l’interfaccia paper-tube - tetto; estremo.
REPORT




La Paper Dome è uno shelter permanente progettato da una specifica richiesta di un              Location: Masuda, Giappone
contractor di case in legno.                                                                   Data: gennaio 1998
                                                                                               Ing. strutturali: Minoru Tezuka, VAN
Le richieste del cliente furono chiare fin dall’inizio. Il riparo di 28x25m doveva essere       structural design
progettato considerando che doveva essere agevole per i lavori esterni di movimentazione
del materiale della ditta, particolarmente resistente alla neve e il sistema di assemblaggio
doveva essere così facile da poter essere fatto dai carpentieri del cliente stesso.
Il progetto di Ban prevedeva la costruzione di un arco di 27.7m, con un altezza massima
di 8m, realizzato con tre materiali accoppiati. Siccome non potevano essere prodotti
dei paper-tube così grandi e curvi senza una perdita delle caratteristiche meccaniche
tipiche, si dovettero creare 18 segmenti per ogni arcata, ognuno di 1.8m e di diametro
esterno di 29cm, connessi tra loro con giunti in legno laminato.
Trasversalmente, un sistema di 28 segmenti lunghi 0.9m e 14cm di diametro, si
connettono alle arcate in modo da garantire la rigidezza strutturale.
I paper-tube vennero resi impermeabili attraverso del poliuretano trasparente spalmato
prima dell’assemblaggio, in modo da minimizzare l’espansione e la contrazione degli
elementi dovute all’umidità e ai cambiamenti estremi delle temperature tipici della
zona.
La rigidezza laterale venne ottenuta mediante uno strato di compensato posato                  Paper Dome: esterno e particolare
esternamente al reticolo strutturale dei paper-tube; inoltre tali pannelli vennero ricoperti   copertura
con fogli di policarbonato corrugato.
Cavi in acciaio in tensione e rinforzi sempre in acciaio, vennero aggiunti per garantire
la sicurezza della struttura anche sotto carichi eccezionali come quelli dovuti al grande
accumulo di neve.




Paper Dome: interno ed esploso assonometrico della copertura
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Premio Nobile - AREA Science Park

  • 1. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE Facoltà di Ingegneria Corso di laurea specialistica in Architettura Dipartimento di Ingegneria Civile ARCHITETTURA IN MOVIMENTO: PROGETTO DI UNA UNITÀ MOBILE DI SOCCORSO SANITARIO (U.M.S.S.) Relatore Laureanda Prof. Lodovico Tramontin Chiara Pasut Correlatrice Dott.sa Anna Poggi Anno Accademico 2007/2008
  • 2.
  • 3.
  • 4.
  • 5.
  • 6.
  • 7.
  • 8.
  • 9.
  • 10.
  • 11.
  • 12.
  • 13.
  • 14.
  • 15. Il tema della mobilità è sempre stato un concetto che ha affascinato numerosi architetti. Il sogno di poter svincolare l’architettura dal concetto di staticità che è insito nella sua definizione ha prodotto innumerevoli progetti e visioni. La mobilità può essere interpretata in diverse maniere nell’ambito edilizio, può essere vista come edificio che si muove da un luogo ad un altro, o come singolo componente mobile facente parte di un’architettura tradizionale, ecc. Molti pensano che l’essere mobile sia una caratteristica dell’architettura contemporanea, in cui i sistemi trasportabili e facilmente trasformabili vengano richiesti come spazi temporanei ospitanti manifestazioni itineranti, mostre o attività che hanno una durata limitata nel tempo. Questo è in parte vero, ma esiste anche un ambito architettonico che si basa sulla temporaneità dell’architettura e del costruito, che è quello dei ripari temporanei, comunemente chiamati shelter. Gli shelter in genere sono dei sistemi assemblati a secco che devono provvedere a fornire un riparo alle persone, possono essere abitazioni, luoghi di lavoro, spazi per la collettività, comunque tutti temporanei. Questa tesi vuole affrontare il concetto di shelter come unità mobile di soccorso sanitario in caso di maxi emergenza. Quindi garantire un riparo al personale sanitario in una situazione di crisi in cui sono coinvolte un numero medio alto di persone, le quali devono necessariamente ricevere le prime cure sul luogo del sinistro prima di venir smistate ai vari ospedali. Dal punto di vista medico questo genere di situazioni, nelle nazioni più evolute, è strettamente regolamentato e vi sono dei protocolli comuni che dovrebbero garantire la corretta catena dei soccorsi. In questa, è precisamente definito il tipo di shelter da utilizzare e le funzioni che tale struttura deve assolvere. Proprio perché le situazioni di crisi non sono strettamente prevedibili e gli scenari possono essere innumerevoli, gli shelter devono essere facilmente trasportabili, trasformabili, flessibili ed adattabili. È stato dunque necessario approfondire la tematica della progettazione a supporto delle situazioni d’emergenza, della mobilità nell’ambito architettonico e le relative tecnologie, ed infine i protocolli che regolano le varie attività mediche. Il risultato è il progetto di una unità mobile di soccorso sanitario (UMMS) che è concepita come luogo funzionale al corretto svolgimento delle operazioni mediche e come architettura mobile, facilmente trasportabile (facendo attenzione quindi anche al fattore peso), flessibile a possibili cambiamenti dello scenario della crisi e adattabile ai possibili ambienti. Il primo capitolo della tesi affronta il tema del rapporto tra progettista e situazione di emergenza, in cui il professionista viene chiamato per definire delle soluzioni a supporto della crisi. La maggior parte delle richieste da parte delle organizzazioni umanitarie e degli enti governativi ai progettisti è quella di pensare e rendere fattibile un riparo che riesca a garantire, in brevissimo tempo, la sicurezza delle persone coinvolte. Le considerazioni di Cameron Sinclair, a capo dello studio di architettura Architecture for Humanity, vengono intrecciate con quelle di Enzo Mari relative al percorso progettuale di un industrial designer. In entrambi i casi, per quei campi progettuali che hanno un grado di complessità elevato, viene segnalata la necessita di collaborare con persone che per professione si occupano costantemente della tematica per poter individuare in maniera rapida i problemi. Vengono poi individuati in generale i vari momenti di intervento in situazioni di crisi (emergenza, riabilitazione, ricostruzione) e i requisiti caratterizzanti il progetto per l’emergenza attraverso le linee guida dell’International Conference on Disaster Area Housing . Per concludere tali considerazioni si sottolinea come i quattro punti che propone Enzo Mari per poter ottenere un buon progetto (componente etica, qualità culturale, strumenti di produzione e attinenza tra prodotto e possibile produzione) siano fondamentali quando si parla di progetto per l’emergenza. Il capitolo prosegue con una veloce presentazione dei primi progetti che fino alla prima metà del XX secolo hanno cercato di garantire un riparo alle persone sfollate sia a causa di disastri naturali, ma soprattutto della Seconda Guerra Mondiale. Dopo questo drammatico evento si è cominciato a trattare sistematicamente il problema della fornitura di shelter alla popolazione, dapprima come forma temporanea di abitazione e successivamente come struttura di supporto anche per le altre attività, comprese quelle mediche. I progetti che vengono presentati sono relativi a soluzioni studiate per le crisi umanitarie in quanto questo campo è da sempre il settore in cui, purtroppo, vi è la maggiore richiesta di shelter. Inoltre l’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU, fornisce dei manuali e dei documenti dove vengono fornite dettagliate informazioni circa l’allestimento e l’utilizzo degli shelter. Queste sono rivolte principalmente agli operatori UNHCR ma sono utili anche ai progettisti che intendono cimentarsi con il progetto per l’emergenza in quanto definiscono in modo chiaro e preciso le problematiche, le necessità e le caratteristiche di uno shelter. Per questo, sebbene tali progetti non siano legati strettamente al campo medico, è stato utile studiare le soluzioni adottate per affrontare la fase progettuale. Si è potuto così constatare che non sempre la soluzione ottimale è definita attra- verso un progetto contenete dell’alta tecnologia, ma che anche piccoli accorgimenti possono risolvere problematiche che possono rivelarsi drammatiche sul lungo periodo. Un esempio è senza dubbio l’utilizzo dei paper-tube introdotto da Shigeru Ban per le strutture delle tende dei campi profughi in Ruanda e il successivo utilizzo degli stessi nelle città colpite da terremoti in Giappone, Turchia ed India. Con i tubi di cartone nel primo caso si è evitato il disboscamento delle aree limitrofe ai campi profughi che avrebbe potuto portare a smottamenti e successive ulteriori situazioni di pericolo.
  • 16. La presentazione dei progetti per l’emergenza umanitaria è introdotta da quelle soluzioni che hanno riconsiderato la tradizionale tenda, composta da un singolo telo di plastica sostenuto da pali, utilizzata dalle organizzazioni umanitarie come primo supporto alla popolazione; si è proseguito con l’illustrazione di strutture più stabili e protettive e si è finito con due esempio di prodotti industriali atti a migliorare le condizioni di vita degli utilizzatori. A fine capitolo si è voluto analizzare l’opera di Lucy Orta per dimostrare come l’arte permetta, citando le parole di Sigfried Giedion, “di scorgere ciò che per nostro conto non siamo stati capaci di afferrare” .1 Il secondo capitolo è dedicato all’approfondimento dell’architettura in movimento, del suo maggior esponente, Richard Buckminster Fuller, e all’analisi dello scenario contemporaneo. Colui che probabilmente per primo ha sperimentato le possibilità della mobilità in architettura e soprattutto ha ridefinito lo standard degli shelter è Richard Buckminster Fuller. Figura quasi leggendaria, inventore ed esploratore delle possibilità costruttive è stato il primo a intravedere nella riconversione dell’industria bellica e nel transfert tecnologico tra industria aerospaziale ed architettura, la strada verso il rinnovamento del campo edilizio. Con la sua Dymaxion Development Unit, poi diventata House, ha rivoluzionato il concetto di abitazione, ancor prima di quella di shelter, con una grado di flessibilità e adattabilità raggiunto da pochi. Ancora più importanti i suoi studi relativi alle cupole geodetiche, strutture capaci di avere un equilibrio interno grazie all’interazione tra forze di trazione e compressione. Queste strutture trovarono largo impiego nel settore militare, come riparo per i radar e varie attrezzature militari, ma riuscirono ad imporsi anche come elemento architettonico, sottoforma di abitazioni e padiglioni. Il lascito di Fuller che più ha condizionato ed influenzato le generazioni successive è probabilmente l’idea di contaminare il progetto con i saperi dei settori a più alto grado di innovazione per migliorare le condizioni abitative. Nello scenario contemporaneo possono essere individuati tre livelli di “portabilità”, individuati da Robert Kronenburg2, dell’architettura mobile: i portable buildings, i relocateble buildings e i demontable building. Nel primo caso sono sistemi che vengono trasportati intatti e possono essere identificati con il termine di “semovente” proposto da Alessandra Zanelli3; nel secondo caso hanno parti preassemblate e sono parzialmente integrati al sistema di trasporto, possono essere detti anche “semi-autonomi”; infine quei sistemi che sono pensati per essere assemblati e dissassemblati, detti anche “portatili”. Trasportabilità, trasformabilità, flessibilità, adattabilità sono le parole chiave per un progetto generalmente detto di architettura portatile. La trasportabilità è a sua volta correlata con la leggerezza o la pesantezza del sistema; la trasformabilità permette un diverso utilizzo del sistema grazie al suo cambiamento di forma, colore, apparenza; la flessibilità permette all’elemento di poter rispondere in maniera ottimale ai cambiamenti d’uso e di localizzazione; infine un edificio adattabile è concepito per poter rispondere in maniera rapida alle differenti funzioni, configurazioni e richieste degli utenti. Nel quarto paragrafo viene affrontata la mobilità dal punto di vista del sistema mobile per eccellenza: la tenda. Questa infatti, grazie alla sua storia millenaria, è riuscita a rimanere una dei sistemi di shelter più utilizzati, soprattutto dalle popolazioni nomadi. Il suo punto di forza è senza dubbio la facilità di trasporto, la leggerezza, la flessibilità d’uso. Già le popolazioni nomadi hanno imparato a ripararsi dalle avverse condizioni ambientali attraverso alcuni accorgimenti apportati ai tessuti, ma è attualmente nelle tende per spedizioni alpinistiche che la ricerca ha permesso di avere un avanzamento tecnologico. Parallelamente in ambito architettonico si sono sviluppati i sistemi tensostrutturali e presso strutturali. I primi vengono oggigiorno visti con estremo interesse per perseguire la strada della leggerezza, la quale non significa solamente chiara idea progettuale ma anche risparmio di materiali durante la costruzione di un edificio. Nel campo delle tensostrutture si può trovare uno dei settori di innovazione dell’edilizia. Le aziende produttrici di membrane infatti stanno cercando di attuare dei transfert tecnologici dal settore aerospaziale per migliorare i loro prodotti. Uno di questi casi è quello del prodotto Tensotherm della ditta Birdair che ha applicato alla tradizionale membrana in PTFE uno strato intermedio di aerogel di silice. L’aerogel è un materiale molto leggero che però garantisce un elevato isolamento termico su spessori limitati. Inoltre assolve anche alla funzione di isolante acustico. Nell’approfondimento sull’aerogel si può vedere come questo materiale, dapprima utilizzato dalla Nasa come materiale per raccogliere la polvere stellare, negli ultimi anni ha destato l’attenzione anche dei progettisti edili per le sue eccellenti proprietà isolanti. Vi è poi anche una riflessione su un possibile ulteriore miglioramento delle prestazioni della membrana se venisse utilizzato l’aerogel addizionato con i materiali a cambiamento di fase (brevetto WO/2007/014284) e sulla questione della mancanza di 1 Sigfried Giedion, Spazio, Tempo, Architettura, Ulrico Hoepli editore, 1965, Milano 2 Robert Kronenburg, Portable Architecture. Design and Technology, Birkhauser Verlag AG, 2008, Basel- Boston - Berlin Robert Kronenburg, Flexible,architecture that responds to change, Laurence King Publishing, 2007, Londra 3 Alessandra Zanelli, Trasportabile/Trasformabile. Idee e tecniche per architetture in movimento, Libreria Clup, 2003, Milano.
  • 17. uno standard comune alle aziende del settore edile per la diffusione delle principali caratteristiche. Nel campo delle tensostruttre non tutti i produttori ad esempio inseriscono nelle loro schede tecniche il peso del materiale, altri non indicano i valori di rifrazione delle radiazioni, ecc. Un confronto prestazionale preciso risulta essere difficoltoso per il progettista soprattutto se deve confrontarsi con quei termini che sono il filo conduttore della ricerca di questa tesi: trasportabilità, trasformabiltà, flessibilità ed adattabilità. Quindi con questioni come quelle del peso, quelle climatiche e di adattabilità ambientale. Con il quinto capitolo si sono identificati i requisiti principali prescritti dalle varie normative, direttive e protocolli che una unità mobile di soccorso sanitario deve avere. Necessario è risultato introdurre il concetto di maxi-emergenza, cioè quella situazione che prevarica il normale funzionamento dei soccorsi ospedalieri e in cui i sistemi medici mobili devono operare; una situazione eccezionale, che vede il coinvolgimento di un numero significativo di persone e che richiede un filtraggio dei feriti prima che questi vengano trasportati nei vari ospedali. Per far fronte a queste situazioni gli ospedali sono attrezza con strutture chiamate PMA, posti medici avanzati, che a seconda delle loro tipologie possono essere direttamente ricondotte alla classificazione proposta da Kronenburg. Esistono infatti PMA che possono essere considerati dei portable buildings (PMA furgonati), relocateble buildings (PMA conteinerizzati ), demontable building (PMA sottoforma di tende), ognuno ha i propri vantaggi e svantaggi che sono stati analizzati e comparati. I PMA sono le unità mobili di soccorso sanitario che comportano più limitazioni progettuali in quanto sono sistemi che devono essere disponibili e assemblabili in un breve lasso di tempo (in genere 1 ora dall’arrivo sul luogo del sinistro). La funzione di PMA è infatti quella di essere il filtro tra l’area del sinistro (cantiere in termine medico) e gli ospedali. Tale operazione è necessaria in quanto non è possibile trasportare tutti i feriti in un unico ospedale, magari in quello più vicino. Ogni ospedale è predisposto ad accogliere un numero limitato di feriti gravi contemporaneamente, non è possibile per i medici seguire contemporaneamente più di un numero prestabilito di casi in cui le funzioni vitali del sinistrato siano seriamente a rischio. Per questo l’unità mobile è predisposta per eseguire il cosiddetto triage, cioè quella procedura che stabilisce il grado di criticità della situazione del paziente, la stabilizzazione di quest’ultimo e il successivo smistamento verso l’ospedale più attrezzato ad affrontare la patologia. Essendo una struttura mobile, come per altro indica il nome, che deve essere a disposizione in un breve lasso di tempo, l’unità mobile di soccorso sanitario è un dispositivo che deve rispondere appieno ai quattro termini caratterizzanti l’architettura mobile, cioè trasportabilità, trasformabiltà, flessibilità ed adattabilità. Per prima cosa la struttura deve essere facilmente trasportabile in qualunque luogo; per questo nel progetto si è deciso di non integrarla con il sistema di trasporto; si è optato per un sistema “demontable”/disassemblato, da montare direttamente sul luogo, facendo particolarmente attenzione alla questione “peso” in modo da poterne garantire il trasporto anche con un elicottero civile tramite gancio baricentrico. La scelta è quindi ricaduta su una struttura riconducibile alla tipologia della tenda. Questo ha reso necessaria una riflessione: se nelle altre tipologie il container o il mezzo furgonato vengono attentamente allestiti per le immaginabili problematiche relative al limitato spazio a disposizione, nei sistemi a tenda la cura nell’introduzione di facilitazioni per le operazioni di soccorso è sempre molto scarsa. La tenda ha sì una grande flessibilità di utilizzo, ma questo alle volte diventa l’alibi per il non-progetto di questa caratteristica. Le foto del PMA allestito in occasione di una manifestazione sportiva in provincia di Udine mostrano chiaramente come la non predisposizione di una integrazione tra shelter e impiantistica porti a notevoli difficoltà operative. Compito del progettista è quindi definire il limite tra le esigenze legate all’emergenza, quindi velocità di assemblaggio, e la funzionalità dello spazio interno. Non si può dimenticare comunque che le difficoltà create da una scarsa organizzazione interna ricadono drammaticamente sull’operatività dei soccorritori, sia da un punto di vista strettamente materiale che emozionale. Da ricordare che l’emergenza è una situazione di alto stress anche per coloro che la scelgono come scenario lavorativo; il progettista dovrebbe considerare che altre fonti di stress, quali impedimenti riconducibili alla struttura, provocano scarsa efficienza nei soccorsi. Utilizzando le parole di Wright si potrebbe dire che questa tesi cerca di creare un’unità medica di soccorso sanitario organicamente organizzata. Lo scopo del progetto quindi è quello di garantire una struttura mobile con agevolazioni che facilitino le operazioni di soccorso, evitando la confusione e rendendo autonoma la struttura per un certo periodo qualora la situazione lo imponesse (ad esempio il prolungamento delle operazioni anche durante la notte in una zona difficilmente raggiungibile dai mezzi di terra). Il sesto capitolo cerca quindi di essere la sintesi progettuale delle precedenti ricerche, seppur condotte in ambiti alle volte molto distanti. L’approfondimento delle tematiche dell’architettura in movimento e dell’evoluzione della tenda ha permesso
  • 18. di poter predisporre accorgimenti utili a limitare effetti di disagio e aumentare alcune prestazioni, come l’isolamento termico; la ricerca nel campo degli shelter per l’emergenza ha permesso di avere una visione più ampia delle problematiche delle persone in difficoltà, degli scenari con limitate agevolazioni e delle prescrizioni dettate da decenni di esperienza come quelli accumulati dell’UNHCR; gli approfondimenti sulle tecnologie e sulle innovazioni nel campo dei materiali ha garantito l’utilizzo di prodotti che garantiscono prestazioni di alto livello del sistema; infine la figura di Richard Buckminster Fuller ha aumentato la curiosità per tutti quei settori che non sono strettamente architettonici ma che possono comunque essere d’ispirazione per il progettista.
  • 19.
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  • 23. Numerosi architetti negli ultimi decenni si sono imbattuti in progetti che dovevano essere sviluppati in modo da poter far fronte a vari tipi di emergenze. La maggior considerazione nella programmazione delle emergenze delle varie organizzazioni ha fatto in modo che il fermento attorno a progetti di architettura mobile, temporanea e di emergenza riprendesse vigore dopo le sperimentazioni del secolo scorso. Ma cos’è una emergenza? E soprattutto quali sono i diversi approcci per l’emergenza nell’ambito architettonico? Dal vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli: Emergenza: circostanza o eventualità imprevista, specialmente pericolosa. Quindi un’emergenza è un evento in genere imprevisto e pericoloso. Nello specifico possiamo rifarci al Manuale per le Emergenze dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che, sebbene sia stato redatto specificamente per le emergenze umanitarie, può essere d’aiuto nell’approfondimento. Il manuale dice che nella definizione di un’emergenza “la distinzione si basa sulla gravità del fenomeno” che in questo caso è “qualunque situazione in cui, in mancanza di un’azione immediata e appropriata, la vita o il benessere dei rifugiati possano essere in pericolo, e che richiede una risposta straordinaria e misure eccezionali.” Quindi si può dire che in generale l’emergenza è una circostanza straordinaria che necessita di una risposta eccezionale che prevarica le capacità dei singoli, ma richiede la collaborazione di più persone e/o organizzazioni per risolverla nel più breve tempo possibile. Le emergenze che richiedono l’ausilio dell’architettura e che in parte verranno analizzate in questa tesi riguardano in genere la possibilità di dare, entro un breve l’asso di tempo, riparo e assistenza a coloro che si trovano nello stato di emergenza. Fortunatamente questa situazione è eccezionale, almeno nei Paesi industrializzati e che in genere tende a risolversi e a lasciare il posto ad una condizione di normalità entro tempi brevi. Invece nei Paesi meno avvantaggiati lo stato di emergenza è purtroppo molte volte la normalità. Basti pensare alle epidemie, alle carestie, allo spostamento di un gran numero di persone che scappano da conflitti, agli eventi naturali non previsti e che colpiscono territori non attrezzati per affrontare tali situazioni, ecc. Negli ultimi anni, si sta cercando di prevedere e formulare protocolli sempre più precisi per affrontare queste situazioni, soprattutto nei Paesi sviluppati e all’interno di tutte quelle organizzazioni che operano a stretto contatto con territori e popolazioni svantaggiate. Purtroppo gli effetti di tali provvedimenti ha un riscontro diverso a seconda che vengano posti in atto in territori dotati di infrastrutture o meno. Si pensi ad esempio ad un terremoto; nel caso questo colpisca una metropoli l’obiettivo è cercare di porre in atto, nel minor tempo possibile, le attività di ricerca, soccorso e ricostruzione. Questo è possibile perché da tempo si cerca di prevenire possibili cause di emergenza, si provvede a pianificare un iter di operatività durante l’emergenza e soprattutto vi è un controllo e un’accessibilità al territorio e alle sue parti in genere buona. In territori svantaggiati, di difficile accesso, l’obiettivo primario sarà invece quello di riuscire a raggiungere il luogo dell’emergenza sempre nel minor tempo possibile, che però può significare giungere sul posto quando le attività di ricerca di persone sopravvissute hanno minime possibilità di riuscita, in quanto, in genere, gli aiuti significativi provengono da nazioni straniere. Per questo le attività saranno concentrate sul dare conforto ai sopravvissuti. Se nel primo caso l’architettura ha avuto un ruolo nell’emergenza precedente all’evento stesso, con l’attuazione ad esempio dei dispositivi quali il corretto dimensionamento antisismico degli edifici, nel secondo caso l’architettura ha un ruolo postumo, cioè si occupa dell’assistenza attraverso shelter e della ricostruzione. Ma come fare a mettere a fuoco realmente le esigenze a cui un progettista deve far fronte in una situazione di generale emergenza? Cameron Sinclair dello studio Architecture for Humanity rispondendo ad una intervista dice: “In generale il primo accorgimento consiste nel coinvolgere il maggior numero di persone estranee al mondo dell’architettura: medici, scienziati, professionisti, persone comuni. In questo modo si evita di appiattirsi sulle questioni di stile. I criteri variano a seconda delle situazioni, ma oltre alle valutazioni tecnico-scientifiche assumono grande rilievo gli aspetti economici, e non è detto che si debba a ogni costo risparmiare, perché può essere più interessante - per esempio - una soluzione che apra la possibilità di generare profitti per la comunità. Un singolo problema, come la scarsità d’acqua, può essere affrontato dal punto di vista del trasporto minuto, del filtraggio, della raccolta, del riciclo, della questione igienica a seconda della convenienza rispetto al luogo: per ognuno di questi problemi il design ha elaborato soluzioni ingegnose.”1 1 http://www.architectureforhumanityitaly.org/download/Il%20manifesto%2007.04.2007.pdf
  • 24. Citando Enzo Mari possiamo infatti dire che il progettista si deve porre proprio in quella situazione tipica del design, cioè: “il designer (qualunque sia la specifica tipologia d’intervento) deve necessariamente svolgere il proprio lavoro con la consapevolezza dei due mondi: quello dell’utopia e quello del reale” 2, definizione che funziona anche per il progetto per l’emergenza. Il progettista deve far in modo che tutto il suo bagaglio culturale e architettonico (anche utopico) si metta in relazione con tutte le contingenze del reale, e specificamente con le condizioni dettate da una situazione d’emergenza. Sempre Mari : “Questo gli consente, molto più che ad altri, di avvicinarsi alla comprensione di ciò che concretamente condiziona la nostra modernità (per chi vuole anche «post»). Trasmettere in modo comprensibile la conoscenza di tali contraddizioni è oggi forse il primo obiettivo del buon progetto.” 3 Similmente a Sinclair, anche Mari descrive come in quei progetti che prevedono una qualche complessità, devono essere coinvolte, direttamente o indirettamente, più persone con ruoli e specializzazioni diverse. Secondo il loro modo di porsi e interagire nella complessità del progetto ci possono essere due esiti: il primo favorevole, nel momento in cui le diversità riescono a procedere le proprie ricerche e confrontarsi con gli altri inducendo momenti di dialogo; il secondo sfavorevole, nel momento in cui ognuno procede separatamente riducendo lo scambio di informazioni al minimo. Questa seconda situazione porta alla realizzazione di un progetto improprio 4. Enzo Mari. Schemi delle due modalità di interazione tra i partecipanti ad un progetto, il primo con esito favorevole, il secondo con esito sfavorevole. A sostegno di questo vi è anche una caratteristica fondamentale che viene sottolineata dall’UNHCR che, anche se si riferisce alla fase acuta della emergenza, può ritenersi valida anche per il progetto architettonico a sostegno dell’emergenza; questa caratteristica è l’approccio multisettoriale. Inoltre è necessario un continuo riesame dell’efficacia della risposta e un adeguamento nel momento in cui si riscontrino delle esigenze differenti. La necessita della progettazione di shelter per far fronte alle emergenze è ribadita da Sinclar: “Nessuno vuole investire nella prevenzione. Sono le grandi ondate emotive che seguono le catastrofi a mobilitare le energie, il denaro, il potere necessario a fare partire le idee, e spesso neanche quelle sono sufficienti. Prendiamo il caso di New Orleans: il rischio di inondazione era noto, e nonostante questo non si è voluto prevenirla. Il tasso di povertà degli abitanti era inammissibile per una città degli Stati Uniti, nessuno si era reso conto di quanta gente potesse essere esposta alla rovina totale dall’uragano Katrina. Il risultato è noto: nessuno ha capito bene come reagire ed è stato uno sfacelo, uno spreco di risorse e vite umane.” 5 2-3 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino 4 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino 5 www.architectureforhumanityitaly.org/download/Il%20manifesto%2007.04.2007.pdf
  • 25. La distruzione dell’uragano Katrina a New Orleans nell’agosto del 2005 La seconda guerra mondiale fu l’avvenimento che segnò un grande cambiamento all’interno della gestione delle emergenze: la nascita delle NGO, nongovernmental organization, le organizzazioni non governative. Con l’eccezione del Comitato Internazionale della Croce Rossa, che fu fondata negli anni 60 dell’’800 da Henri Dunant, la gran parte delle organizzazioni e delle agenzie che sono attive tutt’oggi sono state fondate sulla base dell’esperienza dalla seconda guerra mondiale. Queste includono non solo le Nazioni Unite, ma anche altre agenzie governative come l’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), organizzazioni di aiuto umanitario come l’International Rescue Committee, CARE, e l’Oxfam, e organizzazioni religiose come Catholic Relief Services. Da questo momento in poi, le organizzazioni non governative hanno giocato un ruolo fondamentale nel provvedere ai rifugi di emergenza per i rifugiati o a sostegni dopo i disastri naturali. Dopo la fine della guerra e la fine della colonizzazione, il problema delle emergenze, come già detto, si è spostato dall’Europa e dall’America ai Paesi in via di sviluppo. La Croce Rossa ha stimato che nelle passate due decadi, più di 75˙000 persone sono state uccise annualmente da disastri naturali o prodotti dall’uomo, altri 211 milioni sono state interessate dai disastri ogni anno, 98% delle quali risiedevano in Paesi in via di sviluppo. Inoltre si è visto come nell’ultimo decennio il numero di eventi calamitosi, e di conseguenza il numero di persone coinvolte, sono in costante aumento. Con l’aumento del numero delle NGO, queste hanno migliorato molto la parte dello sviluppo e della creazione di sistemi sanitari e di approvvigionamento di acqua, e nella costruzione di abitazioni. Solo negli ultimi anni però si è sottolineata l’importanza di associare all’intervento umanitario il rispetto per le realtà in cui si interviene. Questo aspetto va tenuto presente soprattutto dopo la fase della primissima emergenza, in cui bisogna ricostruire, dove possibile, nel territorio colpito. Ian Davis, consulente per i rifugi temporanei per le Nazioni Unite e che ha collaborato con Fred Cuny, uno dei primi ad interessarsi negli anni ’70 alla pianificazione dei campi profughi e alle tematiche relative all’emergenza, misteriosamente scomparso in Cecenia nel 1995 con due medici russi, sottolinea come “When you told them (ai rifugiati) that you can build a permanent house in Bangladesh in three days for the same amount of money they were proposing to spend on temporary housing, they igored you.”
  • 26. Fred Cuny in Somalia nel 1992 accanto al veicolo dell’ONU danneggiato da un attacco armato a Mogadiscio. Tre anni dopo, all’età di 50 anni, Cuny sarebbe sparito in Cecenia durante una missione di pace. Il progettista quindi deve sempre relazionarsi con i parametri del luogo in cui andrà ad intervenire e non con quelli del suo Paese d’origine. Il rischio è quello di creare una struttura totalmente inutile ed inefficace per affrontare l’emergenza. Tanto che le tende – la soluzione scelta dalla gran parte delle agenzie – possono essere spedite a grande distanza a un costo accessibile ma magari non vengono utilizzate perché arrivano troppo tardi o vengono montate in campi lontani dalle case e dai luoghi di attività economica. Nel 1977 si tentò di decodificare una linea di intervento comune a tutte le organizzazioni attraverso l’“International Conference on Disaster Area Housing” a Istambul. Si individuarono tre momenti per l’intervento del soccorso: -emergenza: come immediato impatto con gli effetti del disastro e i relativi problemi abitativi in termini di riparo, di ricovero; -riabilitazione: intermedia tra l’emergenza e la risistemazione definitiva, che viene individuata con la durata variabile da molte settimane a mesi e anche anni, durante il quale “il massimo sforzo è rivolto a procurare un minimo di condizioni ambientali per le attività umane e alla costruzione di abitazioni temporanee che devono durare fino a quando non siano terminate le costruzioni a carattere permanente”; -ricostruzione: il complesso dei provvedimenti legislativi, economico-finanziari e dei processi produttivi e costruttivi tesi ad approntare le condizioni generali e a realizzare le operazioni per tornare alla normalizzazione della vita. Da tutto ciò vengono dedotti alcuni fattori e requisiti caratterizzanti: - adattabilità a qualsiasi tipo e condizione di terreno; - accettabilità del comfort idro-termico ed acustico; - compatibilità dimensionale dei componenti ai vincoli imposti dai mezzi di trasporti; - massima leggerezza degli elementi e dell’insieme sia per ragioni economiche, sia per facilitare il trasporto, l’assemblaggio e garantire la massima sicurezza; - massima riduzione di mano d’opera specializzata e minimo ricorso ad attrezzature speciali nell’assemblaggio dei componenti; -potenzialità allo smontaggio e ri-montaggio in altro sito e per altre, analoghe, ricorrenza. Alla conferenza di Istambul segue quella di Oxford organizzata da Ian Davis, “International Conference on Disasters and Small Dwelling”, promossa dall’University College locale. Il tema centrale è stato quello dello Shelter After Disaster, inteso nel senso di ricovero di primo soccorso e definito come “accettabile protezione dagli elementi (freddo, caldo, vento, pioggia, ecc) dal momento del disastro fino alla disponibilità di un ricovero temporaneo o permanente”.
  • 27. Fasi di riabilitazione e ricostruzione di territori colpiti da calamità Bisognerebbe tener comunque sempre conto di quelli che Enzo Mari indica come le qualità di un progetto6: - la componente etica; - la qualità culturale; - il possesso degli strumenti di produzione; - i tipi di coincidenza tra progetto e produzione. Se solo dalla seconda metà dello scorso secolo si è cominciato a sottolineare la problematica progettuale di quelli che vengono chiamati shelter, cioè rifugi, già da molto tempo prima, i progettisti hanno affrontato il tema dell’emergenza, soprattutto sotto il profilo abitativo. Facendo un salto nel tempo possiamo risalire forse al primo progetto che cercò di far fronte ad una emergenza tentando un approccio di post-riscostruzione. Fu il caso di Lisbona, che nel 1755 venne colpita da un terremoto e successivo tsunami. Con il progetto denominato gaiola (gabbia), si creò una struttura flessibile di legno formata da puntoni diagonali rinforzati e da un reticolo di elementi sempre di legno verticali ed orizzontali, in modo da rendere in qualche modo “antisismici” i nuovi edifici in previsione di un successivo terremoto. Ma l’evento che forse decretò l’inizio delle strategie di intervento fu il terremoto del 18 aprile 1906 che devastò San Francisco. Fu infatti l’evento catastrofico più imponente dell’epoca di prima industrializzazione. In un primo momento la Croce Rossa, fondata solo 25 anni prima, quindi senza una significativa esperienza, e i volontari fornirono prima delle tende ai sopravvissuti e successivamente alcune baracche che si rivelarono ben presto costose e inefficaci. Si resero quindi conto che l’obiettivo doveva essere quello di ricostruire nel più breve tempo possibile la città per riportare tutti alla normalità. Per questo una combinazione di concessioni e prestiti ai più abbienti per l’edificazione di nuove case e la costruzione tra il settembre 1906 e marzo 1907 di più di 5610 cottage progettati dagli ingegneri dell’esercito (tra i 13 e i 37 m2 e per un costo variabile tra i 100 e i 741 dollari) di facile successiva dismissione, portò alla rapida normalizzazione. Purtroppo a più di 100 anni di distanza, quello che oggi è una prassi della veloce ricostruzione nei Paesi industrializzati, per 6 Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri Editore, 2001, Torino
  • 28. la gran parte del mondo è un traguardo ancora molto lontano. Per decenni gli architetti hanno discusso sull’opportunità e la necessità di provvedere alla definizione di nuovi rifugi per far fronte alle situazioni di crisi. Da quando i progettisti hanno confidato nell’idealismo dell’era delle macchine, nella crescente ascesa del progresso tecnologico e nello sviluppo di idee a prima vista spesso utopiche, c’è stato uno sviluppo di soluzioni e progetti per il supporto sia alla popolazione che agli operatori che devono far fronte alle problematiche delle situazioni di crisi, come il provvedere a un riparo temporaneo, alla garanzia di acqua potabile, all’assistenza sanitaria alle famiglie che necessitano. Col tempo però, il mondo del soccorso e sviluppo post evento catastrofico si è separato dal mondo dell’architettura e del design. Quello che i progettisti da sempre hanno considerato una sfida, i soccorritori invece lo considerano come un problema di pianificazione e politica. Questa disconnessione ha portato ad alcuni interrogativi, espressi anche da Kate Stohr nel saggio sui 100 anni di design umanitario per il libro edito dallo studio newyorkese Architecture for Humanity 7, quali: che ruolo deve avere la progettazione nella definizione e soddisfazione delle esigenze di un primo riparo? Come possono gli architetti indirizzare al meglio la progettazione per soddisfare i bisogni della cittadinanza colpita? E, andando al cuore della questione, il design deve essere considerato un bene di lusso o una necessità, un mezzo per il semplice godimento estetico o in prima istanza, la soddisfazione primaria dei bisogni? Questo problema ha da sempre interrogato non solo gli architetti ma anche i pianificatori, i politici e le organizzazioni di soccorso , dibattendo per bilanciare il bisogno logistico di provvedere ad un riparo con il bisogno/desiderio dell’uomo di avere un luogo da poter chiamare casa. 7 Architecture for Humanity, Design Like You Give a Damn, Architectural Responses to Humanitarian Crisis, Published by Metropolis Books, 2006, New York
  • 29. La storia del design, inteso come progetto, umanitario/sociale ha le sue radici nei primi movimenti dei cittadini che tra il 1800 e il 1900 cominciarono a rivendicare e promuovere la riforma delle condizioni sociali e abitative delle fasce povere della società. Parallelamente a progetti di architettura “convenzionale”, cominciavano a farsi largo anche tipologie di architettura mobile. Nel 1917 in varie località della Francia vennero erette delle case di legno completamente assemblabili a secco per dare un primo rifugio stabile ai rifugiati della Prima Guerra Mondiale. Le abitazioni, donate dall’ American Friends Service Committee, erano composte da due stanze. Demontable Wooden House, 1917, Francia Nel 1936 Wally Byam costruì la prima roulotte aerodinamica, la Durham Portable House, che costava tra i 1˙500 e i 3˙000 dollari, che non solo imitava la casa convenzionale, ma fu anche precursore del “double-wide”, cioè poteva essere trasportata in due parti e assemblata in loco come singola abitazione (in genere hanno dimensioni che possono raggiungere i 9 metri di larghezza e i 27 di lunghezza). La casa mobile non fu il solo successo delle abitazioni prodotte per la grande massa in America prima della Seconda Guerra Mondiale. Tra il 1908 e il 1940 il venditore americano Sears, Roebuck and Co. Vendette più di 100˙000 case dal proprio catalogo. Le case venivano vendute in più di 30˙000 parti, complete di istruzioni di assemblaggio e due alberi per il giardino e per un breve periodo queste case offrirono una valida alternativa alle costruzioni tradizionali. Le case potevano essere acquistate a un prezzo che andava da 650 per le più piccole, da fino a 1˙000 dollari per le medie. In più la società garantiva che “un uomo di medie capacità” poteva costruire con il kit a disposizione, la casa in soli 90 giorni” 8. “The Winona”, Sears Modern Homes, Akron, Ohio, USA 8 www.searsarchives.com/homes/index.htm
  • 30. In merito al MOMA di New York da luglio a ottobre (2008) vi è la mostra “Home Delivery: Fabricating the Modern Dwelling” che ripercorre la prefabbricazione in ambito edilizio in America, nella quale vi sono alcuni esempi di case self-made per gli strati della popolazione meno abbienti (www.momahomedelivery.org). Nel continente africano, uno degli esempi più significativi di sperimentazione dello stile self-help housing, cioè dell’auto costruzione, fu il lavoro di Hassan Fathy in Egitto. Nel 1930 Fathy iniziò a sperimentare le costruzioni fatte in mattoni di fango.Dopo aver costruito alcune case di campagna con i tradizionali tetti a volta e i mattoni di fango, inclusa una sede dimostrativa per la Mezza Luna Rossa in un villaggio distrutto da un’inondazione, fu chiamato dal Dipartimento delle Antichità del suo paese per progettare e ricostruire un villaggio, il villaggio di Gourna. Per Fathy la costruzione della nuova città, vicino ad un sito archeologico, fu l’opportunità per testare le sue idee di un’architettura basata su sistemi a basso costo di costruzione e con tecniche sostenibili per il territorio, prese direttamente dalle tecniche costruttive dei suoi avi. Anche perché i nuovi abitanti di Gourna non avrebbero potuto nemmeno permettersi le tanto pubblicizzate case prefabbricate. La costruzione si protrasse tra il 1946 e il 1953 ma non si ottenne il risultato sperato per l’incomprensione con gli abitanti che si aspettavano di avere subito una casa completamente terminata, come fosse l’ennesimo prodotto. Il problema del self-help housing è che si viene a negare il ruolo stesso dell’architetto, che è relegato al semplice ruolo di insegnante delle tecniche costruttive. Hassan Fathy, piano per il villaggio di New Gourna, Egitto, 1946 Allo stesso tempo un altro progetto più fortunato di quello di Fathy fu iniziato dal governo di Puerto Rico per ricostruire e ridistribuire la terra. A 67˙000 lavoratori agricoli fu dato un piccolo appezzamento che comprendeva 3 acri. La costruzione delle case iniziò nel 1949, e le famiglie furono organizzate, per tali lavori, in gruppi di 30 persone. Inoltre le famiglie erano libere di decidere come progettare e costruire le proprie abitazioni utilizzando ogni metodo che potesse avere un senso, che comprendesse un metodo costruttivo tradizionale o meno. Agli inizi degli anni ’60 erano già state costruite tra le 30˙000 e le 40˙000 piccole abitazioni.
  • 31. Con la Seconda Guerra Mondiale per la prima volta nella storia il numero dei civili morti superò quello dei soldati, la distruzione delle città e dei paesi non aveva precedenti e praticamente tutta l’Europa doveva essere ricostruita. Da questo momento in poi l’attenzione dei progettisti si spostò sui rifugi di emergenza, i quali divennero la priorità per dare un tetto ai milioni di sfollati. L’architetto finlandese Alvar Aalto sviluppò un rifugio di emergenza temporaneo che poteva essere trasportato e utilizzato da quattro famiglie con un sistema di riscaldamento centralizzato. Transportable Primitive Shelter, Alvar Aalto, Helsinki, Finlandia, 1939-40 circa Nell’ottica della ricerca di sistemi e processi idonei a soddisfare le esigenze dell’utenza sfollata ad avere spazi ridotti (quindi poco costosi) ma sempre più dinamici e flessibili, in Francia Jean Prouvè propone soluzioni l’impiego di semilavorati industriali per la produzione di costruzioni per l’emergenza. Tra queste le écoles volantes, scuole per bambini rifugiati, e il Pavillon 6x6. Quest’ultima unità abitativa fu concepita per rispondere alle richieste di 450 abitazioni provvisorie avanzata dal Ministero della Ricostruzione francese. La possibilità dell’assemblaggio da parte di pochi uomini e a secco permetteva che questi rifugi fossero disponibili in breve tempo e senza aggiunta di altri materiali oltre quelli che uscivano dalla fabbrica produttrice. La copertura si poggiava su puntoni in lamiera che costituivano la struttura principale e veniva successivamente controsoffittata. Il pavimento era in legno, sollevato da terra e sostenuto da una intelaiatura metallica. Gli elementi di chiusura verticale erano pannelli di legno con anima di alluminio.
  • 32. La costruzione del Pavillon 6x6, Jean Prouvè, France, 1944 Interessante, anche sotto l’ottica della diversità culturale tra Europa ed America, è notare come nel continente americano tra il 1940 e il 1945 circa otto milioni di persone hanno trovato un nuovo alloggio con il programma edilizio nazionale della National Housing Agency che comprendeva varie tipologie quali: trailers, mobile houses, demountables, dormitories, temporary houses, ecc. E sono proprio gli Stati Uniti d’America i pionieri nella progettazione e creazioni di case o semplici “shelter” montabili in poco tempo e trasportabili. Le linee di ricerca principali erano due: quella di Richard Buckminster Fuller che utilizzava le industrie che si stavano via via convertendo dalla produzione bellica e quella dalle varie agenzie per la casa che proponevano delle case facilmente trasportabili generalmente di legno. Nel secondo caso, identificato dall’alloggio unifamiliare in legno come la portable unit cottage della TVA, Tennessee Valley Authority, la sperimentazione avveniva tutta in fabbrica e le fasi di montaggio che potevano essere più complicate per l’acquirente venivano eseguite già in fase di produzione. Airstream Clipper, Wally Byam, Los Angeles, California, USA, 1936, New Demountable Cottage,T.V.A. Tennessee Valley Authority, 1940 Walter Gropius, durante la sua esperienza ad Harvard intraprese una prestigiosa collaborazione con la General Panel Corporation. Insieme a Wachsmann condussero una formulazione più matura ed esaustiva del sistema strutturale prefabbricato. La loro interpretazione delle strategie connesse con la prefabbricazione intendeva rispondere all’assemblaggio della struttura tramite la connessione di parti a loro volta assemblate in fabbrica. La ricerca svolgeva verso il superamento delle rigide schematizzazioni determinate dalla produzione industriale con la volontà di giungere a combinazioni flessibili dei vari elementi costituenti l’alloggio garantendo flessibilità e modificabilità. Scriveva Wachsmann: «Lo sviluppo del modulo degli elementi delle superfici universali viene determinato in sostanza da due condizioni opposte. Mentre un elemento di costruzione dovrebbe venire dimensionato il più grande possibile, per avere un minor numero di giunzioni, che sono pur sempre i punti più deboli, è necessario nello stesso tempo che esso sia il più
  • 33. piccolo possibile, perché la sua maggiore o minore utilità dipende dalla sua capacità di adattamento in relazione ad infinite combinazioni, sia al momento della progettazione che dell’applicazione». Konrad Wachsmann e Walter Gropius in cantiere per il montaggio del Package House System. Sullo sfondo le pareti del sistema in fase di allestimento. Nel 1945 negli Stati Uniti la US Federal Public Housing Autority preparò circa 30˙000 abitazioni temporanee prefabbricate di prima emergenza da spedire in Gran Bretagna. Le piombature e i fissaggi venivano spediti assieme alla struttura, ma non venivano forniti gli arredi interni. Houses for Britain, 1945
  • 34. Precedentemente è stata definita l’emergenza come una situazione eccezionale, con un livello di gravità che pregiudica il normale funzionamento delle strutture come possono essere gli ospedali. Se ci si trova in Paesi industrializzati sarà più semplice che l’emergenza duri un lasso di tempo inferiore rispetto a Paesi in via di sviluppo e che abbia effetti meno significativi. Ciò nonostante, nella ricerca condotta per questa tesi, si è visto come ad oggi, la maggior sperimentazione in ambito architettonico riguardante situazioni di emergenza sia stata fatta attraverso concorsi che vedono come scenario principale Paesi con un grado di infrastrutture e supporto logistico insufficiente, come i Paesi africani o del sud est asiatico. Vi sono alcuni tentativi di inserire nell’ambito delle città occidentali l’architettura “d’emergenza”, cioè che risponde in maniera rapida a situazioni precarie, ma i tentativi in genere si risolvono in installazioni temporanee. Il concetto che lega l’architettura alle emergenze è quello di shelter, cioè di rifugio, che viene definito in “Tents, A Guide to the use of family tents in humanitarian relief” edito dall’ Office for the Coordination of Humanitarian Affair delle Nazioni Unite come “an habitable, covered living space”, ma viene anche specificato che non deve essere solo un tetto, un riparo, ma deve contenere una serie di comfort, accessori e la possibilità di accedere facilmente ad alcuni servizi. Nel caso dei rifugiati questi saranno ad esempio dei vestiti, delle coperte, delle stufe, cioè tutte quelle cose che una persona in fuga non può portare con se. Per uno shelter ad uso sanitario si dovranno predisporre tutte quelle facilitazioni che permettono un agile lavoro al personale medico. Al progettista non spetta tanto la definizione esatta delle quantità degli accessori, bensì il pensare a tutte le possibili attività che potrebbero svolgersi all’interno dello shelter, progettando delle soluzioni che permettano l’utilizzo dello spazio in modo ottimale. La guida delle Nazioni Unite dà poi delle indicazioni che possono sembrare banali ma che meritano di essere citate per iniziare a comprendere le primarie necessità di cui bisogna tener presente nella progettazione di uno shelter. Nel precedente paragrafo “Il ruolo dell’architetto nel progetto per le situazioni di emergenza” venivano specificate le caratteristiche che deve garantire un rifugio, cioè mantenere in un buono stato di salute gli occupanti, garantirne una minima sicurezza e un grado, anche se minimo, di dignità. Campo profughi, Macedonia, maggio 1999
  • 35. Nelle emergenze le tende, principale tipo di rifugio, utilizzato dalla maggior parte delle organizzazioni, soprattutto per la facilità con cui possono essere spedite in tutto il mondo, avendo un facile stoccaggio, assicurano i precedenti fattori nel seguente modo: - salute: le tende proteggono dagli agenti climatici esterni (pioggia, neve, vento, polvere, sole); - privacy e dignità: garantiscono un grado di privacy e un riparo dignitoso alle persone che hanno appena perso tutto; - sicurezza: provvede a una sicurezza fisica, riducendo ad esempio il rischio di furti, e da una sensazione di protezione alle persone che vivono all’interno. I campi devono comunque avere altri sistemi di sicurezza. - mezzo di sicurezza di supporto: la tenda permette alle persone di allontanarsi per prendere cibo e combustibile, mantenedo sotto controllo i figli e potendo così condurre altre attività essenziali.1 Campo profughi in Etiopia, febbraio 1985 In genere la costruzione di rifugi d’emergenza è strettamente dipendente dalle condizioni locali; ripari possono essere costruiti con materiali provenenti da edifici danneggiati, o reperiti direttamente in loco, come teli di plastica, legno, corde,ecc. La costruzione di rifugi con questi materiali può coinvolgere attivamente la popolazione, divenendo inoltre disponibili più velocemente e ad un costo inferiore rispetto alle tende spedite dai Paesi soccorritori. Teli di plastica, pali, corde in genere sono le prime cose ad essere distribuite dalle organizzazioni umanitarie, in modo tale da evitare il disboscamento delle aree limitrofe all’accampamento e garantendo la costruzione di tali rifugi in tempi brevissimi. Deve esserci però la capacità costruttiva delle persone coinvolte; bisogna tener presente che se ci si trova in climi estremi queste soluzioni non sono però sufficientemente adeguate. Per questo a volte è preferibile costruire rifugi utilizzando le tecnologie del luogo, in che modo possano essere costruiti in breve tempo e garantire un riparo più stabile e dignitoso. Prime due foto: campo profughi di Mokindo, Rwanda, novembre1993; ultima foto: Campo profughi in Congo, dicembre 1995 1 Office for the Coordination of Humanitarian Affair, Tents, A Guide to the use of family tents in humanitarian relief, 2004, United Nations Publication
  • 36. La costruzione di questo tipo di rifugi in alcuni casi può rivelarsi meno costosa del trasporto delle tende; sono inoltre più appropriati culturalmente e migliori per quella che potrebbe essere una futura riconversione. Per far fronte a emergenze umanitarie vengono anche fornite delle strutture a tunnel, che per disposizione dell’UNHCR sono costituiti , per una struttura standard di 7x4m, da: - 3x6m x tubi per l’acqua in Polietilene a media densità con diametro esterno di 63mm; - 3x3,6m x 12mm di barre di metallo per l’irrigidimento orizzontale, - 6x0,5m x 12mm di barre di metallo per il fissaggio, - 1x7m x 4 m di telo di plastica per la copertura, - 2x2m x 2m di telo di plastica per le porte, - 32 m di corda. Il vantaggio di queste strutture è che garantiscono un immediato supporto per i programmi sanitari e per l’approvvigionamento dell’acqua, quindi in genere vengono utilizzate come supporto logistico. Tende con struttura a tunnel, prescrizioni UNHCR Tenda con struttura a tunnel della Croce Rossa
  • 37. Nella progettazione degli shelter per le popolazioni in situazioni di crisi vi sono più approcci. In genere vi sono progetti che con un livello di tecnologia minimo garantiscono le prestazioni basilari e quelli che, aumentando via via l’apporto tecnologico, cercano di creare un ambiente più stabile e duraturo nel tempo. Normalmente infatti le soluzioni di base, tipo le tende, dovrebbero essere utilizzate per un tempo limitato, cioè solo nella prima fase dell’emergenza per poi lasciare posto a soluzioni sempre più durature fino al ristabilimento della normalità, anche in ambito architettonico. Purtroppo però i dati che ci provengono dalle organizzazioni umanitarie non sempre confermano questa evoluzione degli eventi. Dati UNHCR riportano come la media della permanenza di un rifugiato in un campo profughi è passata dai 9 anni del 1993 ai 17 del 2003, e considerando che il 47% dei rifugiati ha età inferiore ai 18 anni si può facilmente capire l’effetto di tali dati sulla società del paese colpito: mancanza di scolarizzazione, delle minime garanzie sanitarie, ecc. Di seguito si presentano alcuni progetti che, con diversi gradi di complessità e tecnologia, possono far comprendere i diversi approcci progettuali e come vengono risolte le varie problematiche relative agli shelter. Location.................................................Varie Data........................................................dal 2002 Organizzazione......................................UNHCR (Alto Commissariato per I Rifugiati delle Nazioni Unite) Cliente finale..........................................Rifugiati Consulente progettuale......................Ghassem Fardanesh Produttore.............................................H. Sheikh Noor-ud-Din & Sons (Pvt.) Limited, Lahore, Pakistan Costo per unità....................................≈ 100$ Area........................................................16,5 m2 Occupazione..........................................4-5 persone Dimensione............................................5,5 x 3 x 2,1m Peso........................................................41,5 kg Nei Paesi colpiti dalla guerra o da disastri naturali la presenza delle tende dell’UNHCR è uno dei primi segnali di aiuto alla popolazione. L’incarico dato ai progettisti era quello di ripensare la tenda base in dotazione all’organizzazione. Nel tempo sono stati pensate e testate varie soluzioni, dalle strutture prefabbricate, ai container, alle tende di poliuretano, ma nessuno di questi presidi ha dato un significativo sviluppo all’assistenza ai rifugiati. Molte soluzioni hanno fallito perché semplicemente altri sistemi di riparo erano già disponibili al momento dell’emergenza e il tempo per sviluppare soluzioni alternative non era sufficiente. Altre volte i progetti proposti non sembravano delle soluzioni temporanee ma avevano carattere “permanente” rendendo da un lato di difficile accettazione il loro posizionamento in loco e dall’altro più difficile il ritorno dei rifugiati alle loro case. In altri casi si sono rivelati troppo costosi o di difficile produzione in serie. Come già visto in genere la distribuzione dei teli di plastica può essere, a seconda della gravità della crisi, la prima soluzione o l’unica perché è la più semplice per far fronte all’emergenza. Comunque, nel caso in cui non potesse essere possibile reperire in loco materiali per costruire strutture più permanenti,
  • 38. dove le famiglie non hanno possibilità di trovare accoglienza negli edifici comunitari, l’UNHCR provvede a fornire soluzioni più durature, tipicamente una tenda rigida o una formata da doppio tessuto in tela. Però queste tende non sono resistenti, sono ingombranti da trasportare e costose da spedire, si deteriorano facilmente e non possono essere stoccate per lungo tempo. L’usura e gli strappi riducono ancora drasticamente la vita di queste tende. Nel 2002 l’agenzia ha cominciato a testare nuove tende per le famiglie. Le tende dovevano essere ben illuminate ed avere una vita più lunga di quelle precedenti. La prima considerazione che è stata fatta fu quella di ridurne il volume, il peso e le dimensioni in quanto è più costoso spedirle che produrle; parlando di quantità che vanno dalle 50˙000 alle 100˙000 tende il dato non è trascurabile. Il risultato progettuale è stato un tunnel per la massimilizzazione degli spazi e la più ampia versatilità. La produzione attuale prevede che il telo di copertura sia di materiale sintetico, di minor peso (da 110 kg a 41,4 kg) e con la possibilità di stoccarle in grandi quantità,. Un telo interno provvede all’isolamento del piano di calpestio e l’aria circola attraverso dei fori e finestre riparate con zanzariere per non permettere la trasmissione della malaria. Le corde esterne permettono sia l’ancoraggio che il corretto distanziamneto dalle altre tende. Per garantire la privacy, cosa molto importante per la sicurezza di un campo profughi, soprattutto per evitare violenze su donne e bambini o attriti tra gruppi, i progettisti hanno dotato ogni tenda di un tessuto che può ripartire lo spazio interno della tenda, dove le donne possono cambiarsi e i genitori dormire separati dai figli. La partizione può essere utilizzata anche per creare degli spazi semi- pubblici. L’agenzia inizialmente ha prodotto 10˙000 unità e il nuovo prodotto è stato testato in Ciad (in risposta alla crisi del Darfur) e nelle aree dell’Indonesia colpite dallo tsunami del dicembre 2004. Trasporto e montaggio Lightweight Emergency Tent “In our business it’s really difficult to say, - I have something new, and let’s replace (the old version).- The tent we have now has been under surveillance for 20 years. This is a newborn baby.” Ghassem Fardanesh, senior physical planner, UNHCR
  • 39. In questo progetto è da notare come piccoli accorgimenti possono garantire un grado di comfort più elevato anche se il rifugio è una struttura di per sé precaria. Far pronte alle più elementari esigenze dell’essere umano e garantirne un senso di sicurezza in situazioni d’emergenza, fa si che i piccoli progetti possano avere successo. È già stato citato il libro “Tents, A Guide to the use of family tents in humanitarian relief” dell’ Office for the Coordination of Humanitarian Affair. Il libro deriva dall’esperienza di numerose organizzazioni quail OXFAM GB, CARE, CHF, UNHCR rac- colte da Tom Corsellis del Martin Center for Architectural and Urban Studies dell’Università di Oxford, che insieme ad altri collaboratori ha dato origine al progetto Shelterproject. Data........................................................dal 1997 Progettista............................................Martin Center for Architectural and Urban Studies, University of Cambridge Team di progetto.................................Joseph Ashmore, Dr. Tom Corsellis, Peter Manfield, Antonella Vitale Partner di progetto.............................Oxfam, Gran Bretagna Consulenti..............................................Consulenze da numerose organizzazioni umanitarie Clienti finali.............................................Sfollati Website.................................................www.shelterproject.org Nel 1997 il Dr. Tom Corsellis, che aveva già lavorato con organizzazioni umanitarie quali CARE e UNHCR, insieme a un gruppo di progettisti, cercò di ripensare il rifugio d’emergenza. Per anni il progetto delle tende per le emergenze si è focalizzato su due problemi: il costo e la facilità di montaggio. Molte tende venivano costruite con tessuto, che però è pesante e costoso da trasportare, facilmente deteriorabile e non può essere lasciato in magazzini per lunghi periodi. Inoltre le tende dovrebbero essere utilizzabili sia in climi rigidi che caldi. Altre volte vengono montate senza pensare a problemi come il drenaggio dell’acqua, la resistenza al fuoco e altri fattori critici. Conseguentemente le tende sono state utilizzate con vari gradi di successo a seconda degli scenari e dell’organizzazione dei campi. Iniziata nel 1995 la collaborazione con OXFAM GB e grazie all’apporto dell’esperienza di altre organizzazioni, è stato possibile per il team di progetto lo sviluppo di linee guida per le tende che sono state pubblicate nel libro “TENTS”, edito nel 2004. Più recentemente il progetto di ricerca ha approfondito la tematica dell’organizzazione e pianificazione tra lavoro di primo soccorso e la successiva programmazione dello sviluppo futuro della zona colpita. Nel 2005 vennero pubblicate le linee guida per un miglior intervento “Transitional Settlements: Displaced Populations”.
  • 40. Studio per la suddivisione in settori di un campo profughi test delle tende a Bamyan, Afghanistan, febbraio 2003 test delle tende a Panjwai, Kandahar, febbraio 2003
  • 41. Location.................................................Varie Data........................................................dal 1983 Organizzazione......................................World Shelter Consulente progettuale......................Steven Elias, Bruce LaBel Partner di progetto.............................Buckminster Fuller Institute Clienti finali.............................................Popolazione sfollata, campi per operazioni d’emergenza Costo per unità....................................365$ Superficie...............................................25 m2 Dimensione...........................................7,4 x 3,4 x 2,6m Dimensione imballaggio......................38 x 38 x152cm Peso........................................................30 kg Il progettista Bruce LaBel ha avuto il primo approccio con la progettazione in situazioni d’emergenza dopo il terremoto che nel 1976 ha colpito il Guatemala, poi nel 1977 ebbe modo di lavorare con Buckminster Fuller. Poi lavorò per la The North Face, che fu la prima ditta ad utilizzare il concetto di Fuller sulla tensegrity nelle sue tende e dove Bob Gillis con Bruce Hamilton svilupparono la prima tenda impacchettabile con asticelle flessibili che è la medesima tecnologia che è stata utilizzate per il progetto del Shelter frame Kit. Il progetto prevede la costruzione di una tenda attraverso l’utilizzo dei teli di plastica in dotazione all’organizzazione USAID (United States Agency for International Development) e dei semplici tubi di PVC. La struttura è derivata chiaramente dai progetti di Fuller e l’aggancio tra il telo di plastica e i tubi è garantito attraverso delle clip inventate dal designer Robert Gillis chiamate GripCLips. IL Q-shelter ha tutti i vantaggi relativi alla leggerezza, alla trasportabilità e al facile montaggio delle tende, ma ne eredita anche gli svantaggi. La ventilazione è relegata alle aperture usate come ingresso, l’isolamento viene effettuato attraverso l’utilizzo di un secondo telo, soluzioni che accoppiate aumentano la possibilità di avere la formazione di condensa interna. Tenda medica allestita in Uganda, consegna di un Shelter Frame Kit a dei medici dello Sri Lanka colpiti dallo tsunami del 2004
  • 42. Location.................................................Varie Progettista............................................Robert Gillis Produttore.............................................Shelter System Costo......................................................8-10$ per il set da 4 elementi Il progetto è una semplicissima soluzione per il fissaggio dei teli alle strutture delle tende. La clip è adatta per tutti i tipi di teli e per i più utilizzati sistemi di fissaggio, quali fascette di plastica e metallo ma anche semplici cordini. È composta da due elementi: il primo viene fissato alla struttura, mentre il secondo viene incastrato al primo dopo aver posizionato il telo di plastica. La semplice rotazione del secondo elemento sul primo crea un incastro grazie al particolare disegno delle due parti. Una tenda fissata alla struttura con i GridClips
  • 43. Ci sono invece dei progetti che mirano a garantire una più dignitosa vita alle popolazioni disagiate e che vogliono superare le problematiche sia tecnologiche, come la ventilazione, ma anche sociali, come il fatto di vivere in un ambiente diverso dal proprio abituale luogo domestico. Ma questo spesso si scontra con la proibizione dei governi a costruire degli alloggi permanenti agli sfollati, sia perché essi si trovano in territorio straniero, sia per la preoccupazione di una edilizia selvaggia. Quindi il progettista si trova a dover mediare tra le esigenze delle vittime e le restrizioni burocratiche. A questo proposito una soluzione interessante è il progetto Bold (Building Opportunities and Livelihoods in Darfur). Location.................................................Darfur , Sudan Data........................................................2004-05 Organizzazione.....................................CHF International Progettista............................................Scott Mulrooney, Isacc Boyd Consulente progettuale......................Richard Hill Maggior finanziatore...........................USAID Clienti finali............................................Popolazione sfollata Costo per unità....................................90$ Superficie...............................................6,5m2 Il progetto prevede la creazione di shelter che usino le tecniche costruttive tradizionali e dalla forma tipica delle rakubas, cioè le tipiche costruzioni in bamboo del Sudan. Le costruzioni hanno infatti una struttura di bamboo che è tenuta insieme attraverso pneumatici e corde di materiale riciclato ed è ricoperta dai tipici tessuti in fibra vegetale. Le abitazioni “Bold” montate e utilizzate dai rifugiati
  • 44. Location.................................................Grenada Data.......................................................1995 - 2005 Progettista............................................Ferrara Design Inc. Team di progetto.................................Daniel A. Ferrara, Jr., Mya Y. Ferrara Consulente per i materiali..................Ferrara Design Inc., Weyerhaeuser, Inc. Produttore.............................................Weyerhaeuser, Inc. Maggior finanziatore...........................Architecture for Humanity, Weyerhaeuser, Inc., Ed Plant, e altre donazioni private Clienti finali............................................Popolazione sfollata Costo per unità....................................400$ Durata del prodotto............................8-12 mesi Il team di progetto formato da padre e figlia e arrivata al progetto dell’elegante, semplice, relativamente a basso costo, rifugo dopo aver sperimentato più di 100 differenti configurazioni. Fatto con cartone laminato corrugato, il rifugio può essere montato in meno di un’ora da due persone usando solamente un set di informazioni per il montaggio. Il cartone ha la funzione di irrobustire, dare privacy e permettere un facile trasporto del rifugio. Solamente tre ditte che trattavano il cartone erano disponibili per la realizzazione, ma solo la Weyerhaeuser, Inc. era in grado di trattare lastre di cartone corrugato così grandi da permettere la realizzazione completa del rifugio. Lavorando con la stessa ditta la prima idea venne perfezionata riuscendo a fornire un miglior isolamento e una resistenza maggiore all’acqua. Si decise di impregnare il cartone con un prodotto ritardante la combustione e dotando la porta d’accesso di una chiusura meccanica per garantire la sicurezza degli occupanti. Purtroppo, come ogni struttura trasportabile e temporanea i costi per le spedizioni sono molto maggiori rispetto ai costi della produzione. La Weyerhaeuser, Inc. ha stimato che 88 unità possono essere stivate in un container standard da spedizione, in rapporto a 500-1000 tende. Un campo di prova fu l’isola Grenada, in cui un uragano aveva pressoché distrutto l’85% delle abitazioni. Furono montati 70 rifugi distribuiti nelle aree rurali per essere utilizzate come abitazioni transitorie e cliniche ambulatorie. I rifugi sono stati appositamente studiati per durare poco tempo, anche su suggerimento delle Nazioni Unite, in quanto strutture troppo resistenti possono successivamente ritardare il rientro della popolazione nelle loro case e creare situazioni di nuova povertà. Montaggio e moduli assemblati
  • 45. Global Village Shelter, istruzioni di montaggio Lo studio Ferrara Design Inc., come tutti i progettisti che si trovano a lavorare sull’architettura per l’emergenza, sono consapevoli del fatto che progettare un nuovo rifugio che possa competere con la tenda è un’operazione quasi impossibile. Le persone che si trovano in situazioni critiche difficilmente accettano drastici cambiamenti. Per loro è difficile anche pensare ad una spesa maggiore per un riparo quando ogni centesimo è fondamentale per la sopravvivenza. È per questo che molte soluzioni rimangono solo dei progetti, come il caso di 139 Shelter e Concrete Canvas. Location.................................................Etiopia Data.......................................................1989, ma mai costruito Progettista............................................Future System Team di progetto.................................Jan Kaplicky, David Nixon Consulente strutturale.......................Atelier 1 Ingegneria meccanica.........................ARUP (Ove Arup & Partners) Maggior finanziatore...........................Architecture for Humanity, Weyerhaeuser, Inc., Ed Plant, e altre donazioni private Persone coinvolte................................200 Persone per l’assemblaggio..............12 persone in 30 minuti Dimensioni.............................................500m2 Costo per unità....................................30˙000$ Furono le immagini della popolazione etiope affamata e che assaliva i centri di distribuzione del cibo nel 1985 che spinse Jan Kaplicky e David Nixon a progettare 139 Shelter. Voleva essere un riparo per la popolazione che dal nord del paese andava verso sud. Il rifugio può ospitare fino a 200 persone, può essere facilmente trasportato con un aereo cargo e poi agganciato a un camion o paracadutato. Una volta in sito necessita di 12 persone per essere assemblato. La forma è ad ombrello ed ancorata al terreno con sacchi di sabbia. La copertura di Pvc, riflettendo più dell’80% del calore solare, garantisce un’efficace zona d’ombra durante il giorno ed un efficace riparo durante le notti più fredde. La ventilazione è garantita da una ventola centrale.
  • 46. Metodi di trasporto Meccanismo di apertura Sistema di ventilazione
  • 47. Data.......................................................2003-2004 Team di progetto................................Peter Brewin, William Crawford Dimensioni............................................16m2 - 230 kg Costo per unità...................................2˙000$ (prototipo) Website.................................................www.concretecanvas.org.uk Inventato da Peter Brewin, William Crawford, ingegneria al Royal College of Art, “Concrete Canvas” è un “edificio in una sacca”. Gonfiata la sacca, 12 ore dopo il rifugio è pronto per essere utilizzato. Entrambe i progettisti hanno avuto precedenti esperienze militari prima di iscriversi al Royal College e sono convinti che questa soluzione potrebbe essere utilizzata in scenari di crisi, per cliniche mobili in situazioni di emergenza medica o come luogo per stoccare cibo e materiale. Il funzionamento è il seguente: si prende la sacca di tessuto impregnato di cemento e la si riempie di acqua (la dimensione della sacca controlla la giusta quantità che deve essere usata, eliminando quella in eccesso).Si lascia in posa per 15 minuti in modo che il cemento si reidrati ed una matrice di fibre tessili insieme ad un agente legante acqua-assorbente, producono una reazione chimica che miscela il cemento. Poi, si apre la struttura, che viene gonfiata come un materassino ad aria attraverso un pacchetto chimico che rilascia un volume controllato di gas. Una volta gonfiata la si lascia in posa finchè non indurisce e successivamente si tagliano le porte e i fori per la ventilazione. Infine si lascia che la struttura indurisca per tutta notte. Il risultato è una sottile struttura in calcestruzzo di 16 m2. Una fodera aderente all’interno di plastica provvede a creare un ambiente sterile impermeabilizzato. Sebbene l’idea di poter avere un rifugio resistente che può essere riposto in uno zaino è ottima, il peso e la necessità di avere a disposizione una grande quantità di acqua, fa si che questa idea debba essere maggiormente sviluppata e non sia immediatamente utilizzabile in scenari di crisi in corso in Paesi non industrializzati. Montaggio con relativa tempistica; posizionamento, idratazione, gonfiaggio, finiture Due elementi montati e interno del Concrete Canvas
  • 48. Uno dei problemi principali nella creazione degli shelter è il reperimento dei materiali che magari si pensa di trovare in loco. Nel progetto precedente la disponibilità d’acqua veniva data per scontata, senza tener conto che in una situazione di emergenza questa può scarseggiare, sia perché il luogo può esserne privo (Paesi in via di sviluppo) sia perché le infrastrutture, quali le tubature o le strade che potrebbero essere utilizzate da mezzi con cisterne, potrebbero essere danneggiate (Paesi sviluppati). Naturalmente se si dispone di un apparato di tipo militare questi problemi possono essere superati in tempi brevi grazie allo spiegamento di mezzi, ma ciò non può essere garantito se ci si trova ad agire in campo civile. Il reperimento del materiale in loco è comunque un problema tenuto in grande considerazione dalle agenzie dell’ONU. Infatti il ricorso senza controllo a materiale da costruzione locale per far fronte alla prima emergenza può provocare successivi gravi danni nella gestione della crisi. Il disboscamento di ampie zone per reperire legname per la costruzione provoca la distruzione della vegetazione e di conseguenza anche la mancanza di zone ombreggiate, l’evaporazione dell’acqua e la sua dispersione. Da queste considerazioni nacque la collaborazione tra l’architetto Shigeru Ban e l’UNHCR. Location.................................................Byumba Refugee Camp, Rwanda Data.......................................................1999 Progettista............................................Shigeru Ban Progetto e prototipo...........................Primavera 1995 – luglio 1996 Costruzione e montaggio...................Febbraio – Settembre 1999 Committente........................................UNHCR Cliente finale.........................................Rifugiati ruandesi Finanziatore..........................................UNHCR Un tipico campo profughi e un campo attrezzato con gli shelter progettati da Shigeru Ban Nel 1995 Shigeru Ban fu chiamato dall’ UNHCR per progettare delle dimore temporanee per più di 2 milioni di ruandesi che scappavano dal genocidio in corso per trovare rifugio in Tanzania e Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Il progetto nella sua forma finale arrivò dopo una serie di ipotesi sui possibili materiali utilizzabili (bamboo, alluminio, plastica e tubi di cartone). Numerosi fattori portarono alla scelta finale dei tubi di cartone. In primo luogo il grave problema della deforestazione per la richiesta di legname da parte dei rifugiati per la stessa costruzione di ripari improvvisati. In secondo luogo i tubi di cartone sono poco costosi e di facile trasporto. Infine era anche possibile produrre gli stessi in loco, riducendo così le spese di spedizione, il tempo di attesa e gli scarti di lavorazione. La costruzione di tre prototipi, avvenne nella primavera del 1995. Questi rifugi, che venivano coperti da teli di plastica di 4 x 6 m e garantivano la copertura di 16 m2, furono costruiti in collaborazione con Vitra e testati per garantirne la manutenzione, i bassi costi di produzione e la resistenza termica. La prima tipologia venne costruita come una semplice tenda a forma triangolare con un tubo di cartone posto in corrispondenza della fine di ogni timpano e delle corde a garantire la giusta tensione. La seconda fu costruita come un rifugio assimetrico che permette un utilizzo più funzionale dello spazio interno rispetto al primo modello. I tubi di catone creano una forma a V in corrispondenza di ogni fine timpano e le corde permettono di mettere in tensione la struttura. L’ultimo prototipo, più grande e con 3 fogli di plastica (uno grande e due più piccoli) può essere connesso ad altri moduli dello stesso modello alla fine dei timpani. Questo modello permette un’area coperta maggiormente utilizzabile, rendendola disponibile per piccole cliniche o altri servizi.
  • 49. I tre prototipi proposti Il terzo fu il prototipo scelto per essere utilizzato dall’UNHCR. Dopo vari test da Vitra, il rifugio fu trasferito nel Luglio 1996 nel giardino delle nazioni Unite a Ginevra per la presentazione finale all’ UNHCR. Nella seconda fase di progettazione fu esplorata la possibilità della produzione in loco. Nel febbraio 1997, specialisti della Sonoco, fabbrica di tubi di cartone, sono andati al centro logistico di Medici Senza Frontiere a Bordeaux in Francia portandosi un macchinario e il materiale per la produzione dei tubi, volendo dimostrare la flessibilità della produzione anche in larga quantità nei luoghi delle emergenze. Per Ban la fase finale del progetto, nel 1999, è stata quella del monitoraggio delle costruzione di 50 rifugi. L’evento che fece capire la necessità della costruzione di abitazioni più stabili per le persone che improvvisamente non avevano più la propria casa, fu il terremoto che colpì il Giappone, in special modo la città di Kobe, nel 1995. Infatti in quel caso Ban potè affrontare e testare in tempo reale i suoi progetti. La prima soluzione fu quella di spostare le residenze temporanee fuori dal centro cittadino, ma fu subito chiaro che i campi provvisori allestiti in centro città continuavano a persistere perché vicini ai luoghi di lavoro. Quindi Ban con i suoi studenti costruirono le prime 21 case in tubi di cartone (Paper Long House) vicino ai maggiori centri di produzione. Queste case vennero poi migliorate con l’esperienza del terremoto del 1999 in Turchia e del 2001 in India. Pagine dall’allegato D, procedure di assemblaggio dal manuale edito per i Paper Tube Shelter
  • 50. Pagine dall’allegato D, procedure di assemblaggio dal manuale edito per i Paper Tube Shelter Allestimento dei Paper Tube Shelter nel campo profughi di Byumba in Ruanda, 1995-1999
  • 51. Il problema ambientale durante le fasi di emergenza è sempre più tenuto in considerazione. Infatti la scarsa attenzione a tale tema durante la fase pianificatrice degli interventi e durante gli stessi può provocare, come per altro già detto, delle situazioni critiche nell’immediato futuro. Così, come Shigeru Ban nelle sue Paper House, sempre più progetti mirano alla salvaguardia ambientale anche attraverso la corretta progettazione di shelter e costruzioni permanenti. Location................................................Tilona, Rajasthan, India Data.......................................................1986-89 Progettista capo.................................Bunker Roy Team di progetto................................Bhanwar Jat, Neehar Rain e Barefoot Architects, strutture geodetiche di Rafeek Mohammed e Barefoot Architects. Costruttori...........................................Bhanwar Jat con abitanti del posto Clienti finali...........................................Abitanti di Tilona Maggior finanziatore..........................Social Work e Research Center, Governo indiano, Nazioni Unite, German Argo Action, HIVOS- Humanist Institute for Development Cooperation, Plan Internazional Costo.....................................................21˙430$ Superficie..............................................2800 m2 (sito 35000 m2) All’interno della costruzione del Barefoot Colege a Tilona, nella regione del Rajasthan, in India, gli architetti impegnati nella sua costruzione hanno utilizzato le cupole geodetiche ideate da Buckminster Fuller come elemento integrante di una architettura sostenibile. Infatti il problema della deforestazione in questa regione dell’India è urgente ed allarmante a causa del taglio indiscriminato del legname per la costruzione delle tipiche case. Rafeek Mohammed e sette altri architetti del programma hanno costruito le cupole con materiali di scarto dell’agricoltura, inclusi i pezzi non più utilizzati dei carri e alcune sezioni delle pompe. Le hanno poi ricoperte con paglia, conferendo così un aspetto tradizionale a queste nuove costruzioni. Le strutture geodetiche sono tutt’ora utilizzate come laboratori medici, dispense, ufficio postale e internet caffè.
  • 52. Ci sono poi progetti che nascono specificatamente per essere utilizzati nell’ambito delle grandi metropoli, per dar modo alle persone meno abbienti di aver a disposizione un luogo da chiamare casa, un luogo i cui rifugiarsi, anche se non rispecchia l’idea tradizionale di “domesticità”. Sono progetti che si confrontano strettamente con il concetto di existens minimum e che alle volte, come si potrà vedere successivamente, arrivano a confondersi con la performance artistica, con la sola differenza che il performer, in questo caso, è una persona in evidente stato di emergenza abitativa. Location................................................Los Angeles, California, USA Data.......................................................dal 1993 Concept................................................Ted Hayes, Craig Chamberlain Progettista...........................................Craig Chamberlain Organizzazione....................................Justiceville, Usa Cliente finale........................................Senzatetto Maggior finanziatore..........................IARCO Corporation Costo totale.........................................250˙000$ Costo per unità..................................10˙000$ Area per unità.....................................29 m2 Il Dome Village consiste in 20 sfere ognuna di 6,1m di diametro e alta 3,6m con una superficie di 29 m2 . Ogni sfera è formata da 21 pannelli di fibra di vetro e poliestere poi uniti con 150 bulloni di Teflon, rendendo la struttura impermeabile. In meno di 4 ore, due persone possono assemblare una Omni-Sphere usando una scala, un cacciavite e una chiave inglese. È stato progettato per offrire un riparo stabile ai senzatetto e cercare così di ridare una prospettiva di vita alle persone che non posseggono nulla. L’interno di una Dome
  • 53. Per finire questa rassegna di progetti sviluppati per far fronte a situazioni di emergenza si segnalano alcuni progetti che non riguardano strettamente il campo architettonico, ma sono forse più vicini al mondo del design. Questo per dimostrare come il processo della progettazione, che si tratti di un rifugio, di una casa o di un semplice recipiente richiede lo stesso iter, cioè una fase di individuazione delle problematiche, lo stato delle condizioni in cui dovrà inserirsi il progetto, l’utilità e la fattibilità,ecc. Ancora una volta si può vedere come soluzioni low-tech possono convivere con tecnologie hig-tech e che le une non escludono le altre. Si tratta solamente di vedere in che modo si può dare risposta nel modo ottimale alle richieste che vengono fatte al progettista. Location................................................New York, Baltimora, Boston, Cambridge Data.......................................................dal 1998 Progettista...........................................Michael Rakowitz Consulenti............................................vari senzatetto Cliente finale........................................senzatetto Finanziatore.........................................autofinanziato Costo totale.........................................5$ Website................................................www.michaelrakowitz.com paraSITE è un rifugio temporaneo per persone che vivono in strada. Il riparo è un elemento gonfiabile costruito da due fogli di plastica e un nastro (materiali facilmente reperibili dai senzatetto). Una serie di tubi vuoti interconnessi creano una struttura che ha come parte finale un singolo tubo. Per gonfiare la struttura bisogna connettere la parte finale agli sfiatatoi degli impianti di ventilazione degli edifici. Il calore attraversa i tubi e gonfia la doppia membrana strutturale, creando istantaneamente un riparo caldo. Al mattino il riparo può essere semplicemente ripiegato e riposto in una borsa facilmente trasportabile. Rakowitz ha costruito il primo prototipo nel 1997 a Cambridge, nel Massachussetts, per un senzatetto di nome Bill Stone. Da quel giorno ha costruito 30 prototipi di paraSITE, ognuno personalizzato per ogni utilizzatore finale. Un altro lato di questo progetto è il fatto che, dovendosi attaccare ai sistemi di ventilazione degli edifici, paraSITE diventa un elemento visibile e che denuncia agli abitanti più benestanti il dilagare del problema delle persone che non hanno più una casa, problema in aumento negli Stati Uniti d’America. paraSiITE può essere trasportato dai senzatetto in una borsa e all’occorrenza posizionato alle prese d’aria, fatto che attira l’attenzione dei passanti
  • 54. Location................................................Sud Africa Data.......................................................dal 1993 Progettista...........................................Grant Gibbs Team di progetto................................Pettie Petzer, Johan Jonker Produttore...........................................Imvubu Projects Consulenti esterni..............................Robin Drake, Piet Hickley Maggior finanziatore..........................Africa Foundation Costo per unità...................................circa 75$ Website................................................www.hipporoller.org Il progetto Hippo Water Roller ha permesso a migliaia di donne e bambini di poter trasportare l’acqua necessaria al sostentamento giornaliero delle famiglie senza doversi caricare sulle spalle innumerevoli quantità d’acqua in recipienti in genere contenenti 20 litri. L’idea principale del progetto è stata quella di non dover per forza caricare l’acqua sulle spalle, ma semplicemente farla rotolare all’interno di un contenitore in polietilene cilindrico di 90 litri. Il sistema permette alle persone di trasportare molta più acqua e un notevole risparmio di tempo; inoltre il peso percepito facendo rotolare il contenitore è di 10 kg contro i 90 kg che si avrebbero se l’acqua venisse trasportata con i tradizionali metodi, con un notevole vantaggio per la salute delle persone che trasportano i contenitori e della famiglia che può avere a disposizione più acqua per cucinare e per la propria igiene. L’Hippo roller in una foto da catalogo
  • 55. REPORT Shigeru Ban ha costruito la sua prima struttura in paper-tube nel 1989, chiamata Paper Arbor (un padiglione per il World Design Expo a Nagoya in Giappone) ed ha continuato la ricerca raggiungendo espressioni formali di alto livello, come dimostrano le esperienze del Japan Pavilion per l’Expo di Hannover del 2000 e il Paper Arch del museo di arte moderna di New York. Nell’analisi di questi edifici si potrà facilmente capire come l’innovazione all’interno dell’architettura può percorrere due strade, come per altro già anticipato precedentemente: quella che vede un apporto di innovazione relativamente basso, low technologies, cioè tecnologie desunte dall’esperienza e in genere a basso costo; e quella della high technologies, cioè tecnologie ad alto contenuto di innovazione, in genere derivati da settori in cui gli investimenti nella ricerca sono significativi, come quello aerospaziale o dei trasporti. Nel capitolo riguardante le soluzioni tecnologiche utilizzate nelle architetture mobili si avrà modo di approfondire tale tema, ma è necessario, per comprendere il lavoro di Ban con i paper-tube, “dire che i termini e i concetti «avanguardia» e «tradizione», applicati alla civiltà orientale, non hanno significato, o meglio, hanno significato solo se li si intende come concetti e termini opposti: in tale civiltà, infatti, essi vanno intesi come sinonimi di «innovazione» e di «stabilità» in una relazione reciproca di dipendenza.” 1 “In campo architettonico tale approccio trova esempi significativi nelle esperienze di Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Shigeru Ban, le cui opere danno continuità alla cultura giapponese pur impiegando un linguaggio architettonico e tecniche costruttive tese alla ricerca del nuovo.” 2 Ban è un esempio di progettista che sa muoversi tra soluzioni progettuali che percorrono la strada dell’ high-tech, come nel caso della Neked House, e soluzioni che invece privilegiano il low-tech, come le abitazioni Paper Log House. In un’intervista della rivista Detail, Ban ha detto “Cerco sempre di lanciare nuove idee, ma non ho «inventato» nulla; utilizzo materiali standard, solo in modo nuovo”. Dai dati tecnici reperibili sulle strutture in paper-tube, per le Paper House si nota come c’è stata una grossa fase di verifica delle proprietà meccaniche della nuova struttura che si è svolta tra il 14 ottobre e il 20 novembre 1991, nel dipartimento di Scienze e Ingegneria della Scuola di Architettura a Tokyo. Nel caso in esame i tubi di cartone sono utilizzati come delle vere colonne. Lo scopo di una parte degli esperimenti era quello di indagare la risposta, entro tempi brevi, del papaer-tube attraverso un test a piegatura (bendino test), a compressione e a taglio. I tubi utilizzati avevano diametro esterno di 280mm e quello interno di 250mm. 1 G. Pasqualotto, Yohaku, Forme di ascesi nell’esperienza estetica orientale, Esedra, 2001, Padova in Nicola Sinopoli, Valeria Tatano, a cura di, Sulle tracce dell’innovazione. Tra tecniche e architettura, Angeli, 2002, Milano. 2 Nicola Sinopoli, Valeria Tatano, a cura di, Sulle tracce dell’innovazione. Tra tecniche e architettura, Angeli, 2002, Milano.
  • 56. REPORT “The average compressive strenght of paper tube was 113.9 kgf/cm2” “The bending strenght is more than 1.42 times the compressive strength” “The single shear strength was 581 kgf per lag screw”3 A Kobe, a Kaynasli e a Bhuj le Paper Log House vennero costruite per dare un riparo alle Location: Nagata, Kobe, Giappone Data: settembre 1995 migliaia di persone sfollate dopo i violenti terremoti che avevano colpito tali città. Ing. strutturali: Minoru Tezuka, TSP Le Log House, di 4m2, erano costruite con travi di cartone e con muri fatti di tubi dal Taiyo diametro di 108mm e spessi 4mm. Location: Kaynasli, Turchia La base fu costruita con casse di birra collegate con sacchi di sabbia. Il soffitto e il tetto, Data: Gennaio 2000 ognuno dei quali rivestito con una membrana di PVC, furono separati per permettere la Arch. associati: Mine Hashas, Hayim circolazione dell’aria, mantenendo fresco l’interno d’estate con l’apertura del timpano e Beraha, Okan Bayikk invece lasciandolo caldo in inverno attraverso la sua chiusura. Location: Bhuj, India Quando le famiglie numerose necessitavano di avere due unità collegate si creava Data: Settembre 2001 un’area comune tra le due parti in cui i tetti venivano collegati. Ing. strutturali: Kartikeya Shodhan Per ogni casa era necessario disporre di 10 operai, incluso il capomastro. Associates Le prime 6 case si poterono costruire in sole otto ore e, di seguito, ne vennero costruite 21 nel giro di un mese al costo di 250˙000 yen l’una (1˙500 euro circa). Queste case erano meno costose e più facili da montare rispetto alle tradizionali case prefabbricate e il fatto di essere facilmente riciclabili contribuì al successo del progetto. In Turchia le case vennero costruite invece con una dimensione di 18m2, fatto dovuto alla dimensione di produzione del compensato nel Paese. Inoltre le case vennero meglio isolate attraverso l’inserimento di carta da scarto all’interno dei tubi lungo le pareti e l’utilizzo di fibra di vetro nel soffitto. Nel caso indiano invece, vi furono problemi nel reperimento di alcuni materiali come le casse di birra da utilizzare per la base. Per questo si decise di utilizzare il pietrisco ricavato dalle macerie degli edifici distrutti per poi costruirci sopra un pavimento in fan- go, tipico della tradizione costruttiva locale come la stuoia tessuta con canne la quale, accoppiata con un mantello di plastica chiara cerato proteggeva l’interno dalla pioggia. La ventilazione veniva garantita attraverso dei fori nella stuoia del frontone caratteristica che diede la possibilità alle donne di cucinare all’interno della casa, evitando il fastidioso problema delle zanzare. Quindi si può notare come la tecnologia dei peper-tube e del loro assemblaggio è stata mutuata a seconda delle esigenze e delle caratteristiche costruttive del luogo. Kobe, shelter allestiti prima dell’arrivo delle Paper Log House; Paper Log House e montaggio. 3 Matilda McQuaid, Shigeru Ban, Phaidon Press, 2003, Londra
  • 57. REPORT Paper Log House, Kobe, Giappone, 1995: esploso assonometrico; interno. Paper Log House, Kaynasli, Turchia, 1999: fasi della costruzione. Paper Log House, Bhuj, India, 2001: esploso assonometrico; interno di una Log House usata come scuola; interno.
  • 58. REPORT La costruzione della Paper Church fu fatta accanto alle macerie della chiesa di Takatori a Location: Nagata e Kobe, Giappone Kobe. La comunità era per la maggior parte composta da rifugiati vietnamiti le cui case Data: settembre 1995 Ing. strutturali: Minoru Tezuka, TSP furono a loro volta rase al suolo dal terremoto che ha colpito la città nel 1995. la pianta Taiyo rettangolare di 10x15m ha una pelle di rivestimento in pannelli di policarbonato. La parte frontale e metà di ogni lato laterale può essere aperto, facilitando la ventilazione interna e permettendo, in caso di necessità, la partecipazione ai riti anche a numerose persone che altrimenti non avrebbero potuto entrare nella chiesa. Lo spazio interno è reso dinamico dalla disposizione ovale dei 58 paper-tube di 5m di altezza, con diametro di 33cm e 15cm di spessore, e può contenere 80 persone. Paper Church: montaggio Paper Church: interni; esploso assonometrico; particolare del l’interfaccia paper-tube - tetto; estremo.
  • 59. REPORT La Paper Dome è uno shelter permanente progettato da una specifica richiesta di un Location: Masuda, Giappone contractor di case in legno. Data: gennaio 1998 Ing. strutturali: Minoru Tezuka, VAN Le richieste del cliente furono chiare fin dall’inizio. Il riparo di 28x25m doveva essere structural design progettato considerando che doveva essere agevole per i lavori esterni di movimentazione del materiale della ditta, particolarmente resistente alla neve e il sistema di assemblaggio doveva essere così facile da poter essere fatto dai carpentieri del cliente stesso. Il progetto di Ban prevedeva la costruzione di un arco di 27.7m, con un altezza massima di 8m, realizzato con tre materiali accoppiati. Siccome non potevano essere prodotti dei paper-tube così grandi e curvi senza una perdita delle caratteristiche meccaniche tipiche, si dovettero creare 18 segmenti per ogni arcata, ognuno di 1.8m e di diametro esterno di 29cm, connessi tra loro con giunti in legno laminato. Trasversalmente, un sistema di 28 segmenti lunghi 0.9m e 14cm di diametro, si connettono alle arcate in modo da garantire la rigidezza strutturale. I paper-tube vennero resi impermeabili attraverso del poliuretano trasparente spalmato prima dell’assemblaggio, in modo da minimizzare l’espansione e la contrazione degli elementi dovute all’umidità e ai cambiamenti estremi delle temperature tipici della zona. La rigidezza laterale venne ottenuta mediante uno strato di compensato posato Paper Dome: esterno e particolare esternamente al reticolo strutturale dei paper-tube; inoltre tali pannelli vennero ricoperti copertura con fogli di policarbonato corrugato. Cavi in acciaio in tensione e rinforzi sempre in acciaio, vennero aggiunti per garantire la sicurezza della struttura anche sotto carichi eccezionali come quelli dovuti al grande accumulo di neve. Paper Dome: interno ed esploso assonometrico della copertura